Il "non essere capiti": tra arte e psicosi
Leggendo di arte mi ha sempre destato interesse una frase di Van Gogh, il quale sosteneva che: "Mi dispererei se i miei quadri venissero corretti, non desidero che siano accademicamente corretti, la cosa che più desidero è di far proprio a quelle manchevolezze, quelle alterazioni della realtà di modo che divergano".
Penso che in queste poche parole risieda uno dei semi del parallelismo tra arte e psicosi: "La volontà di non essere capiti". In che senso dico questo? Nel senso che l'artista, durante il processo creativo, riesce a compiere una operazione che rende la sua opera artistica unica ed irripetibile, anzi la sua intenzione è proprio quella che, attraverso la pittura, la scultura, la poesia, la musica, ecc. l'"altro" non capisca esattamente ciò che intende precisamente dire. "Dunque solo l'artista sa cosa significa quella sua opera che rende visibile agli altri?". La risposta è da una parte sì da una parte no, che poi è lo scopo del mio breve articolo esporre codesta polarità. Da una parte è un sì quando si tratta di artisti consapevoli che lanciano il proprio messaggio esistenziale e che si divertono ad assistere alle diverse interpretazioni delle loro opere, dall'altra parte è un no quando l'artista non è assolutamente consapevole del messaggio che vuole dare e non gli interessa nemmeno saperlo. Motivo per cui tanti artisti detestano i critici d'arte.
Questo diverso rapporto intrapsichico che si lega all'arte ed alla volontà di non essere capiti, evidenzia a mio avviso due dimensioni psicologiche diverse tra loro, che poi emergono e sono ben visibili nella vita quotidiana: 1) il nevrotico che ha dei tratti psicotici; 2) lo psicotico che è veramente psicotico. Proseguo per ordine.
1) Immagino che qualcuno potrebbe inorridirsi di fronte a questa non-differenziazione tra la psicosi e la nevrosi, ma mi sembra, dal mio punto di vista, ben osservabile come la nevrosi sovente sia anche accompagnata da elementi psicotici. Gli artisti conoscono bene questa "forma" psicologica tra la nevrosi e la psicosi e, sapendo che non potranno mai mostrarla al "mondo" in quanto, come ci insegna Michel Focault, la dicotomia sano/pazzo rassicura l'umanità da sempre, decidono di "gettare" i propri elementi psicotici nella propria tela, nella loro canzone, nella loro poesia, ecc. in quanto sanno che facendo questo non verranno discriminati, emarginati e stigmatizzati dalle persone "normali". Quest'ultime sovente del tutto incapaci di esprimere forme artistiche.
2) Il secondo caso, invece, appartiene alla vera e propria sfera psicotica, a cui si lega l'autentica genialità artistica, dove l'inconsapevolezza del gesto lo è sia per colui che vede, ascolta, tocca l'opera sia per lo stesso artista, il quale in preda all'angoscia scrive, compone musica, dipinge, ecc. non sapendo esattamente cosa sta facendo ma spinto dal solo bisogno di esprimere quella energia che lo reprime e lo sopprime di giorno in giorno. La domanda è: "Se non capisce lui come può capire l'altro?". Questi artisti sono dei veri geni del non-senso, il cui senso semmai va ricercato per anni e anni; motivo per cui spesso vengono "capiti" solo dopo la loro morte. Al povero Van Gogh capitò proprio questo ma, anche se può apparire drammatico, in fondo ha pure un profondo senso esistenziale per la persona psicotica, forse uno dei pochi che alberga in loro e che risiede nel fatto che "il capire" la loro opera d'arte rappresenterebbe una insostenibile esperienza di angoscia e di lacerazione interiore di fronte alla necessità di essersi "rinchiusi" in un altro mondo completamente differente da quello reale, dove solo l'arte ha diritto di entrare e di esistere. In qualche modo si disvelerebbe il loro segreto più intimo causando uno shock intollerabile. Questo è il loro modo di entrare in contatto con il mondo, ed anche questo va rispettato: senza dover capire ciò che esprimono.
"Spesso accade che le mani sappiano svelare un segreto intorno a cui l'intelletto si affanna inutilmente" C.G.Jung