Se i cervelli fuggono, i cuori dove vanno?
Se i cervelli fuggono, i cuori dove vanno?
Da quando esiste la storia dell’uomo, esiste la storia dei flussi migratori.
Siamo nati come nomadi che cercavano cibo e risorse spostandosi da un territorio all’altro, ci siamo evoluti aumentando la nostra stanzialità e creando più possibilità di vita in un determinato posto, ci stiamo estinguendo distruggendo e consumando le risorse senza un piano di sostenibilità.
Lontano da essere una riflessione sulla nostra vita in-sostenibile, il mio sguardo va verso quel fenomeno che sta tornando (o che forse non è mai cessato) come strategia di sopravvivenza per le nuove generazioni, l’emigrazione.
C’è chi va, c’è chi viene.
C’è chi lo fa per fame e disperazione, chi invece per un riconoscimento lavorativo e sociale sempre più difficile da ottenere. Qualunque sia il motivo alla base di questo movimento, ciò che avviene è di fatto uno spostamento di corpi e menti che affrontano cambiamenti importanti in cerca di una nuova vita.
La fuga di cervelli è un modo elegante per raccontare l’emigrazione sostenendone la componente cognitiva, alta, nobile.
Un tipo di nomadismo diverso perché considerato intelligente e al passo con i tempi.
Così, mentre i cervelli fuggono, ci si scorda molto spesso dei cuori, che spesso e volentieri in lotta con i cervelli, tendono anarchicamente a fare e stare un po’ dove gli pare e non sempre scelgono di seguire i primi.
Elementi talvolta dispettosi ed inopportuni possono i cuori possono fare vita a sé o coalizzarsi con i cervelli, dando vita ad esperienze di emigrazione totalmente diverse.
Nostalgia, nostalgia canaglia
È un’operazione spietata, sicuramente non facile, he ha l’obiettivo di riordinare, dare un nome e trovare un posto alle nostre necessità come individui in cerca di soddisfazione.
Spesso però, questa soddisfazione fa riferimento ad un’area della nostra vita molto importante ma non esclusiva, quella cioè del lavoro.
Avviene così una prima rottura tra il nostro bisogno di riconoscimento lavorativo ed un’altra parte, quella del riconoscimento affettivo e sociale.
Così, mentre il cervello inizia metaforicamente a fare i bagagli, il cuore inizia struggersi.
Certo, chi emigra per trovare soddisfazione nel proprio lavoro, non solo economica, ma anche intrinsecamente legata al contenuto lavorativo ed alle possibilità di crescita, lo fa anche e soprattutto per l’amore del proprio lavoro, quindi anche con il cuore.
Ma il cuore si sa, non è razionale e quindi si divide tra l’eterna domanda “andare o stare?” senza mai trovarne risposta.
Non la trova mentre si fanno le valige, mentre si sale sull’aereo, il primo giorno di lavoro.
Non la cercherà più, con il rischio di non trovarla mai.
Mentre si crea una nuova vita all’estero, il cuore rimane diviso tra due mondi, uno mai lasciato e un altro mai veramente raggiunto. Mentre il mondo cambia e si evolve, lui rimpiange, ricorda, idealizza.
L’esperienza migratoria si trasforma in una vita a metà, nostalgica e divisa.
Il rimpianto per quello che si è lasciato non scompare mai e impedisce una reale integrazione, portando con il tempo a dimenticare i motivi per cui si era scelto di partire e rimanendo bloccati in un limbo fatto di ricordi idealizzati.
A mai più rivederci
Partire uguale fuggire.
Si fugge, si scappa senza voltarsi indietro neanche per un secondo. Si chiudono i ponti, si cambiano i registri.
Il cuore ferito da anni di frustrazioni si mette davanti al cervello e lo guida, lo trascina altrove. Lo pota là dove sa che si sentirà apprezzato e compreso, dove sa che le cose funzioneranno, dove tutto è più bello, migliore, amico.
La rabbia e l’insoddisfazione guidano un movimento verso qualcosa di sconosciuto che viene vissuto già a priori come migliore solo perché diverso.
Non c’è rimpianto, non c’è nostalgia, c’è solo distacco e diniego di un passato che si vuole dimenticare.
La vita dell’immigrato che ha solo parole di disprezzo per ciò che ha asciato e solo lodi per chi lo ha accolto.
Una vita tranciata a metà. Un prima ed un dopo che non raccontano una storia ma ne raccontano due, in opposizione ed in continua lotta tra loro. Una vita in guerra con il proprio passato.
Tutto il mondo è paese
Per quanto ci piaccia fare differenze e disegnare confini più o meno reali o immaginari, come la lingua o la cultura, la verità è che molto spesso, sono più le cose che ci accomunano agli altri piuttosto ché quelle che ci dividono.
Si, vivere altrove significa vivere in un luogo diverso, frequentare persone diverse, imparare nuovi comportamenti e forse nuove abitudini. E allora?
Cervello e cuore possono vagare da un posto all’altro, si possono spostare, si possono adattare, possono soffrire ma anche gioire e crescere.
Accettare le differenze significa accettare ciò che c’è di buono nel paese he ci ospita, ma anche nel pase che ci ha dato le radici e ci ha visto crescere.
Significa a volte soffrire per ciò che si è lasciato, con la consapevolezza di chi sa che lasciare non significa necessariamente perdere.
Significa guardare al movimento come un’esperienza di aggiunta, dove si collezionano emozioni, esperienze, fatti, persone, che lungi dall’essere solo buone o solo cattive sono, prima di tutto, vita.
Una vita che scorre anche senza il nostro volere o il nostro intervento, ma che se decidiamo di indirizzare troverà la sua espressione in un’esperienza integrata, una vita dove cervello e cuore viaggiano insieme.
Un viaggio fuori e dentro di Sè
Come affrontiamo questo movimento, determina il risultato dell’esperienza stessa, è dunque di fondamentale importanza cercare di approcciarsi a questa esperienza con attenzione e rispetto verso i propri vissuti, cercando di approfondire ed analizzare motivazioni, emozioni, pensieri ed azioni in un ottica arricchente.