Riflessione su una società multietnica
“L'unica costante della vita è il cambiamento”
Buddha
Gli stranieri residenti in Italia, censiti dall’Istat il 1° gennaio 2013, sono 4.387.721, 334 mila in più rispetto all'anno precedente (+8,2%). Le stime che vengono proposte per il gennaio 2014 prevedono un ulteriore aumento. Il 50% circa è a rischio povertà ed il pericolo è decisamente maggiore all’interno di quelle comunità in cui c’è un basso livello di integrazione sociale. Guerre, carestie, catastrofi naturali da un lato, ma anche il miraggio della ricchezza e la convinzione che il mondo è diventato più piccolo e, altrove, più ricco spingono molti africani, asiatici, slavi, russi e albanesi a varcare i mari ed i deserti per giungere nel nostro paese.
All’interno di questa babele di lingue e tratti somatici alberga un comune “conflitto psicologico”, quello tra la fiducia e la voglia di mettersi in gioco in un nuovo contesto e la paura di non riuscire a mettere radici. Le radici però hanno bisogno di un buon terreno per ricevere nutrimento e permettere alla pianta di dare “frutti”. Come evidenzia la CINFORMI (Centro Informativo per l’Immigrazione), “…negli ultimi anni l’immigrazione ha prodotto tra gli italiani un sentimento di contrarietà e ostilità…” poiché c’è la percezione che la presenza degli stranieri abbia aggravato la situazione economica, privando di risorse e servizi, già di per sé esangui, i cittadini “autoctoni”. A questo si associa il tema della sicurezza, in quanto si ritiene che la popolazione immigrata vada ad ingrassare le fila dei delinquenti “nostrani”. Questo clima di competizione (per le risorse) e paura (della presenza) genera una situazione di conflitto che è alla base delle tensioni sociali, dell’emarginazione e della povertà.
I contributi che la psicologia può offrire per la comprensione del fenomeno immigrazione sono molteplici. Ci si potrebbe concentrare sugli aspetti “materiali” della questione, riflettendo sugli stereotipi ed i pregiudizi sociali, ponendo in discussione l’utilità collettiva dell’assunto “competizione noi/loro”. Potremmo argomentare sul significato psicologico dell’assenza di normative di “qualità”, sottolineando come la mancanza di leggi che regolino la convivenza contribuisca a rendere il diverso “nemico”. Tuttavia, qui scegliamo di soffermarci sugli aspetti affettivi, in particolare sull’emozione della paura. La paura è un emozione potente; ha a che fare con la perdita di controllo, con l’ignoto, l’incertezza, la minaccia. Questo sentimento “sgradito” è quello che maggiormente condividiamo con lo straniero e la motivazione che lo genera è comune.
Gli immigrati sono, nella maggior parte dei casi, dei “fuori luogo”. Questa proposizione vuole significare una generazione di persone che è fuori dai luoghi originari, senza più i riferimenti culturali che danno significato alla realtà e che aiutano ciascuno di noi a dare un senso a ciò che accade; ma anche un gruppo di individui che è fuori dai luoghi del paese ospite, senza diritto (talvolta di soggiorno) e senza visibilità negli spazi comunitari dell’essere con gli altri. Si tratta, in sostanza, di persone che stanno perdendo la loro identità. Cosa può fare più paura?
La nostra sorte è analoga. La globalizzazione, l’idea del villaggio globale, il processo sociale che investe le società occidentali, rendendoci sempre più simili l’uno all’altro nei gusti, nei bisogni, nei desideri, nelle priorità, altro non è che la progressiva perdita delle radici culturali che ogni comunità ha coltivato nel corso della sua storia. Questo mette a dura prova la nostra identità, che etimologicamente racchiude il significato di medesimo nel tempo, stesso nella sua “unicità” e che la modernizzazione tenta di trasformare in ognuno uguale a tutti gli altri. Anche noi stiamo diventando fuori luogo ed in questo contesto l’immigrato diventa emblema e causa della nostre paure, perché se ci “mescoliamo” ci perderemo ancora di più.
Abbiamo ragione ad aver paura. Il cambiamento è minaccioso. Ma che cosa vogliamo farne di questa emozione? Possiamo farci paralizzare, scegliere la chiusura all’altro, in un estremo (quanto improbabile) ritorno alle origini; oppure possiamo farci attraversare dalla diversità, consentendole di arricchirci, di vedere in ciò che non conosciamo una risorsa. Per poter ri-conoscere ciò che è noto dobbiamo prima imparare a conoscerlo.