Il permesso di esserci

silvia.rotondi
Dr.ssa Silvia Rotondi Psicologo, Psicoterapeuta

“Esiste un’altra via, se ne avete cuore.

La prima l’ho descritta in parole note

Poiché l’avete vista, come tutti l’abbiamo,

negli esempi, più o meno, di vite intorno a noi.

Ma l’altra è sconosciuta, perché ci vuol fede:

la fede nata dalla disperazione.

Destinazione, non se ne può dare;

Voi sapete ben poco finchè non giungete;

Viaggerete cieca. Ma la via sbocca nel possesso

Di quel che voi cercaste fuori strada”

T.S.Eliot

 

Quanto spesso i nostri comportamenti vengono determinati da ciò che ci aspettiamo che gli altri trovino gradevole?

In alcuni casi questo modo di adeguarsi alle aspettative altrui può risultare freddo, come intenzionale ad accattivarsi l’ attenzione degli altri per ottenere delle gratificazioni o raggiungere scopi, questi comportamenti li riconosciamo in persone che sembrano indipendenti e quasi aggressive; in altri casi invece possiamo osservare comportamenti come se  si cerchi sempre il consenso, l’ affetto, la stima degli altri; in questo secondo caso sembra che abbiamo a che fare con persone dipendenti, passive, insicure. Tra questi due poli troviamo infinite sfumature, ma sembra che quello che li accomuna è il bisogno di esserci per qualcuno, di sentirsi visto e riconosciuto, come se in fondo al pozzo del nostro conscio ci fosse un buco nero da riempire.

L’ unico modo che abbiamo per sentirci sereni e felici è quello di essere uguali a noi stessi e modificarci nella sola funzione di soddisfarci. Spesso le imposizioni della società vissute come standard da perseguire non ci sono d’ aiuto, perché esprimono più una logica del “sei dentro” se sei cosi come io mi aspetto che tu debba essere; oppure “sei fuori” dal gruppo e quindi inadeguato.

Il filosofo Arthur Schopenhauer ci racconta che “in una fredda serata invernale due porcospini decidono di riscaldarsi stringendosi il più possibile uno contro l'altro, ma si accorgono ben presto di pungersi con gli aculei. Allora si allontanano, tornando però a sentire freddo. Dopo tante faticose prove i due porcospini riescono a trovare la giusta posizione che permette loro di scaldarsi senza pungersi troppo. “

Utilizzando questa stessa metafora potremmo pensare agli aculei del porcospino come a delle difese che utilizziamo per proteggerci dal giudizio degli altri, e quindi quella maschera sociale che utilizziamo per essere accettati; mentre il punto di vicinanza in cui riscaldarsi senza pungersi diventa la meta da perseguire nel tentativo di riuscire ad esprimere pienamente noi stessi, con le nostre caratteristiche, in un compromesso continuo con noi e gli altri.

Donald Winnicott, ha descritto la costruzione di un’ immagine di sé difensiva come un falso Sé che costituisce per la persona stessa l’ ostacolo maggiore all’ autoconoscenza. Questa immagine cosi come le spine per il porcospino protegge le parti più fragili.

Riconoscere le nostre fragilità, cosi come le risorse ci permette di essere sinceri con noi stessi, ma anche di costruire relazioni intime con gli altri.

Secondo una prospettiva sistemico-relazionale, sembrerebbe che il bambino che sviluppa fina da piccolo un Falso Sé, cresca in famiglie che esigono da questi una certa forza, competenza, coraggio, in cui esistono miti familiari da eguagliare, oppure ideali forti di cosa vuol dire essere uomo o donna. Inoltre  è possibile che ci siano valori fortemente in contrasto e richieste ambivalenti come quelle che possono crearsi quando i genitori provengono da due stati socio-culturali molto diversi e in cui l’ integrazione di valori non è avvenuta, e quindi il duro compito di integrare cio che arriva non digerito dalle generazoni passate viene lasciato al bambino. Per il bambino il compito dell’ integrazione delle ambiguità è una richiesta troppo impegnativa e inibisce l’ espressione delle parti più fragili, e il soddisfacimento dei bisogni reali.

Il delicato lavoro che la persona dovrà fare è quello di allenarsi a riconoscere i propri bisogni a partire dalle sensazioni viscerali e corporee, che derivano dalla relazioni con gli altri e con i propri familiari, esplorandole in un contesto protetto, e ripercorrendo la propria storia a partire dalle primissime relazioni. Il contesto stabile di una relazione terapeutica potrà da un lato essere ripartivo, di esperienze passate deludenti, e dall’ altro esplorativo di quelle attuali con aggiustamenti nella comunicazione relazionale; quest’ ultimo aspetto è tipico della prospettiva sistemico-relazionale, dove quando è possibile si indirizza la persona a cercare risposte attraverso il dialogo con la propria famiglia di origine, e talora si agevola una più ampia conoscenza per il paziente dei propri genitori, invitandoli in seduta.

Concludendo non sarà facile, ma certo non è impossibile concedersi il permesso di esserci ed essere pienamente presenti a noi stessi. Conoscersi e scoprirsi passo dopo passo, mettendo le mani in fondo a quel pozzo nero nel quale si è nascosto quanto di più prezioso abbiamo: le nostre fragilità.

 

Data pubblicazione: 17 dicembre 2013

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