E' concesso vivere la propria morte?
“Il richiamo della morte è anche un richiamo d'amore. La morte è dolce se le facciamo buon viso, se l'accettiamo come una delle grandi, eterne forme dell'amore e della trasformazione”
Hermann Hesse, (postumo)
A partire dalla metà del ‘900 la morte diviene di completa pertinenza medica. La medicina, infatti, non solo la definisce e sancisce, ma anche regola e gestisce. Una delle conseguenze di questo predominio è rappresentato dall’isolamento del morente che, escluso dal conforto degli affetti familiari, è oggetto spesso di un accanimento terapeutico impietoso. La separazione della persona, ridotta esclusivamente alla connotazione di malato, dai parenti e dall’ambiente familiare mette in rilievo il carattere anonimo che i moderni ospedali conferiscono al morire, secondo quella caratteristica tipica del nostro mondo culturale che opera una sistematica rimozione della morte e dei suoi riti.
Oggi la morte è diventata un fatto esclusivamente biologico, è stata ridotta a concetto di corpo necrotico da smaltire, qualcosa di cui inorridire e prendere le distanze. Tutto questo ha contribuito a mettere in ombra, a rendere debole, la componente umana, culturale, religiosa e sociale di un evento importante “per chi va e per chi resta”.
La medicalizzazione della morte ha prodotto, dunque, solitudine nel morente, alla quale si associa spesso la menzogna, raccontata da parenti ed amici, che nega alla persona la possibilità di “vivere la morte”; come se d’improvviso l’individuo fosse divenuto un bambino, incapace di sostenere il peso e la responsabilità di una notizia definitiva, inadeguato a sopportare il tragico annuncio, la cruda verità. Ciò che non si può dire non si può condividere. L’essenza stessa della solitudine.
Questo argomento apre questioni fondamentali per la realtà contemporanea: l’uomo può vivere soltanto fino alla morte o, piuttosto, può vivere anche la morte, dato che il morire fa parte della stessa vita? E ancora: la scienza medica e la tecnicizzazione della salute hanno davvero allungato la vita o, piuttosto, hanno cronicizzato la malattia? Nel momento in cui l’approccio farmacologico e le terapie analgesiche mitigano le atroci sofferenze del moribondo, è giusto che parallelamente ne annullino anche la personalità, relegandolo nel limbo vegetativo del coma?
Ritengo che riflettere su questi interrogativi possa contribuire a ri-creare un modo ed un tempo più appropriato per il morente ed i suoi familiari di vivere il fine-vita.
Certo, sarebbe ingiusto connotare solo negativamente il progresso medico che ha trasformato l’ospedale da anticamera della morte a baluardo della vita mortalmente minacciata, come pure va osservato che la professione medica si è posta di fronte alla questione in oggetto in modi diversi e dissimili. Allo stesso tempo, in ospedale, ultima fortezza della vita (luogo che praticamente ha soppiantato ormai la morte in casa), accade ancora, anzi sempre più spesso, che si muoia e che questo imprevisto metta a disagio i medici, nuovi sacerdoti della salute, perché ciò li costringe a passare, loro malgrado, dalla guarigione della malattia alla cura del malato agonizzante.
Forse è importante, doveroso, prendere in considerazione anche altre prospettive. L’uomo contemporaneo e la sua medicina sopprimono il dolore, ma anestetizzano le persone che muoiono ancor prima di spirare e in tal modo le persone vivono fino alla morte ma non la morte, evento più che mai personale ma allo stesso tempo curativamente condivisibile e prezioso per tutti i "presenti".