Quando il sacrificio non è funzionale!
Quante volte ci si è trovati di fronte ad una scelta carica di sacrifici? Quante volte, proprio in virtù di questi sacrifici abbiamo fatto retromarcia e/o scelto vie più semplici? E quante volte si è stati accusati di non accettare il sacrifico sentendosi etichettati come troppo comodi o peggio vigliacchi?
Esiste una sorta di legge morale grazie alla quale chi si sacrifica mostra una maturità superiore a chi tal sacrificio non lo accetta o, meglio, possiede maggiori virtù.
Ma in cosa consistono queste virtù? E in cosa il sacrificio rende migliori?
Ricordando che il termine di derivazione latina sacrificium, sta per sacer + facere, ossia "rendere sacro” esso è un concetto prettamente religioso. Nella religione cristiana, ad esempio, rievoca il sacrificio di Cristo sulla croce per liberare il mondo dal peccato originale. In altre religioni esso è un dono offerto agli dei per ottenere benefici. In un modo o nell’altro il sacrificio è un atto orientato ad ottenere qualcosa in cambio: la benevolenza degli dei, la salvezza dell’animo.
Nella nostra cultura il sacrifico ha espressioni più funzionali, ossia rinunciare a qualcosa in favore di qualcos’altro più redditizio. Es. rinunciare ad un lavoro immediato poco remunerato per ottenere qualcosa di più consistente o rinunciare ad un piacere oggi per avere maggiori possibilità di qualcosa di più piacevole domani.
Tuttavia si assiste ad una sorta di degenerazione di questa azione sempre più fine a se stessa, riprendendo e rimarcando l’antico concetto religioso di salvezza e/o di virtù senza alcuna pretesa.
Ed è proprio questa degenerazione alla base di molti conflitti famigliari e di coppia. Il concetto di sacrificio, ad esempio, viene esaltato al solo scolpo di ottenere dall’altro un’adesione ai propri progetti. Dobbiamo sposarci, ma non ci sono soldi, dobbiamo quindi sacrificarci! E per cosa? Verrebbe spontaneo rispondere. Non sarebbe più funzionale fare un passo quando ci sono possibilità effettive? Quest’ultimo concetto è, purtroppo, ritenuto l’espressione di una mancanza di virtù che spinge il suo portatore a star lontano dal sacrificio. E per cosa? Verrebbe spontaneo ribadire.
In prossimità di una scelta funzionale del tipo: sposiamoci quando avremo le possibilità economiche, o mettiamo su famiglia quando ce lo potremo permettere, spesso, il conflitto nasce perché un membro della coppia opta e/o impone la scelta meno funzionale in virtù del sacrificio, ed ecco che la coppia, inevitabilmente, segue due vie: la rottura o la frustrazione che, grazie al sacrificio, non tenderà ad arrivare. A sua volta il sacrificio scatenerà reazioni a catena sempre più frustranti basate su rinfacci, puntualizzazioni, con frasi tipiche: lo faccio per te, te lo avevo detto, pensavo fossi disposto ecc. tutto in virtù di un sacrifico, e per cosa?
Un altro esempio è quando un figlio sceglie una via più semplice in ambito lavorativo e/o di studio. Non vuoi sacrificarti!? Sente spesso dirsi, anche qui ribadiremmo: e per cosa? L’obiezione sarebbe quella di educare il figlio al sacrificio onde evitare frustrazioni future e, quindi, farlo abituare a questo atteggiamento. Per evitare possibili frustrazioni future, si tende a frustrare oggi. Una tentata soluzione che diventa un problema! Infatti dall’esperienza clinica sappiamo che chi apprende a sacrificarsi tende a perpetuare tale processo insegnando a sua volta il sacrificio senza pretese, se non per il puro concetto fine a se stesso. Ed ecco che in molte famiglie continua ad aleggiare la dimensione del sacrificio in termini prettamente religiosi privi di alcun fine funzionale. Esiste, oggi, una tradizione orientata alla rinuncia o alla sofferenza fine a se stessa senza l’ottenimento di un beneficio se non il sacrificio stesso che, in termini più tecnici, potremmo definire un’educazione alla frustrazione.
Se il sacrificio non è orientato ad ottenere un bene funzionale prossimo è, secondo il nostro punto di vista, un’inutile frustrazione che fa ricadere nell’antico concetto religioso del dono della propria sofferenza in cambio di un benessere spirituale da vivere in un altro mondo. E’ bene distinguere, quindi, il sacrificio morale (fine a se stesso) poco funzionale e fonte di frustrazione, dal sacrificio pragmatico in virtù di un ritorno più appetitoso e, quindi, più funzionale sotto l’aspetto operativo.
Se il sacrificio pragmatico può essere fonte di ricchezza futura e di crescita, il sacrificio morale è, nelle famiglie e nelle coppie, fonte di conflitti ed inutili frustrazioni.
Non prendiamocela, quindi, con chi non vuole sacrificarsi senza alcun motivo, semplicemente ha scelto di vivere al meglio il qui ed ora!