La famiglia di fronte la disabilità
La vita delle famiglie con figli diversamente abili è complessa, ingiustamente riconducibile a modelli interpretativi unidirezionali. In questa complessità convivono fonti di disagio ed esperienze positive, ragioni di conflitto e di appagamento che non sono necessariamente attribuibili solo a questo tipo di famiglie, ma a ogni famiglia in cui si manifesta un problema relativo al benessere di un familiare. La differenza con le altre famiglie è che il benessere di un familiare, in questo caso il portatore di handicap, viene continuamente messo sotto i riflettori durante l’arco della vita, così come la sua educazione, il suo comportamento.
Tutti sembrano avere il diritto di dire la loro rispetto alle decisioni che di solito spettano all’individuo e alla sua famiglia. Spesso l’ambito delle scelte e delle azioni educative è vissuto come momento pubblico e non privato come accade nelle altre famiglie. In quanto utenti di servizi rivolti alle persone diversamente abili e alle famiglie stesse, hanno sempre i riflettori puntati sulle loro scelte personali, sul modo di punire o motivare i figli, sulle differenze educative e relazionali con ciascun figlio, e spesso sono oggetto di valutazione/giudizio da parte di professionisti, ma anche non addetti ai lavori, che a dispetto della privacy, credono di poter “dire la loro”, ed “essere d’aiuto”. Con questo articolo voglio proporvi non delle spiegazioni o delle ricette valide in tutti i casi, ma vorrei provare a ragionare sull’ “abbaglio” della disabilità.
Spesso quando si incontra una famiglia con un figlio diversamente abile si rischia di essere abbagliati, accecati; si riesce a vedere solo la difficoltà della persona e la sofferenza della famiglia rispetto a quella disabilità, rischiando di confondere la persona con la “malattia” e la famiglia con il “contenitore di sofferenza”. Non si vede più un bambino che gioca, che studia, che si diverte, che fa i capricci, ma si vede solo un bambino con delle difficoltà che va aiutato, non si vede più una famiglia che ha piacere a stare con gli altri e a parlare di shopping, calcio, crisi economica, o le prossime vacanze, ma si rischia di vedere solo una famiglia che ha bisogno di aiuto per stare vicino ad un figlio diversamente abile.
Con questo non voglio sminuire la gravità di certe patologie, ma sicuramente ci sono aspetti che vanno oltre la disabilità. Ci sono ambiti sociali e sanitari in cui le difficoltà che incontrano queste famiglie vengono discusse e le famiglie provano a trovare un rimedio, ma ci sono altri ambiti in cui queste famiglie sentono la difficoltà ad essere considerate famiglie come tante altre.
Se da un lato, dunque, è ovvio il richiamo alle limitazioni di vario tipo che un bambino diversamente abile e i suoi familiari incontrano nella vita, dall’altro è importante non trascurare l’effetto alone della negatività intrinseca della disabilità dalla persona al suo ambiente. L’organizzazione familiare per quanto riguarda i compiti connessi alla cura dei figli, è piena, nella maggioranza dei casi di impegni gravosi: i genitori devono organizzare le giornate a seconda delle terapie del bambino, della scuola, delle visite specialistiche creando una vera e propria rete di relazioni basata sulla patologia del figlio. Livelli di autonomia ridotti, inoltre, implicano sicuramente un maggior impegno: si allungano i tempi quotidiani di cura, per esempio. Eventuali difficoltà nello sviluppo linguistico e problemi sensoriali possono rendere più difficile la comunicazione e meno fluida l’interazione reciproca (Zanobini 1999). Diversi autori segnalano, inoltre, problemi connessi alla maggiore distraibilità e alla minor capacità di adattamento all’ambiente.
L’impegno richiesto alle famiglie dalla disabilità comporta, in molti casi, un ridimensionamento nelle attività lavorative e/o ricreative. Troppo spesso capita che i genitori debbano rinunciare ad essere anche coppia coniugale, per dedicarsi esclusivamente alla genitorialità. La situazione di isolamento sociale denunciata da molte famiglie può avere, dunque, radici nella ridotta disponibilità di tempo connessa all’entità di tali impegni, ma spesso quest’isolamento è anche determinato da una società che resta abbagliata dalla disabilità