Depressione: patologia o poca forza di volonta?

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Dr.ssa Angela Pileci Psicologo, Psicoterapeuta, Sessuologo

Accade molto spesso di sentire negli ambulatori i pareri e le impressioni dei parenti dei pazienti depressi, i quali lamentano nel proprio congiunto la mancanza della forza di volontà per ”tornare ad essere come prima”. Nell’immaginario collettivo infatti la depressione ha spesso a che vedere con la debolezza e con la mancanza di forza di volontà.

In queste occasioni, quando il parente accompagna il paziente depresso e chiede a margine del colloquio di parlarmi, esordisce dicendo: “Ma glielo dica anche lei di tirarsi un po’ su… senza un po’ di forza di volontà non si esce dalla depressione!”.

Questa affermazione non tiene conto di alcuni aspetti clinici fondamentali:

- Gli stati depressivi sono effettivamente accompagnati da una profonda tristezza che inevitabilmente rallenta il corpo e il paziente si sente stanco e talvolta spossato (la tristezza, da un punto di vista evolutivo, serve per rallentare le attività in maniera da conservare le energie)

- Queste affermazioni (“non hai sufficiente forza di volontà per uscirne”) evocano nel paziente depresso molta rabbia e incomprensione

E’ quest’ultimo punto che vorrei approfondire. Il paziente depresso, durante una psicoterapia, deve ricostruire col terapeuta temi legati alla perdita, al non-accudimento dei propri genitori. Il paziente depresso sovente protegge i genitori e tende a giustificare le mancanze altrui. Ha una attribuzione causale interna: è sempre responsabile, se non addirittura colpevole; non riesce a vedere la mancanza di supporto.

Nel depresso, contrariamente a quanto si possa credere, è la gestione della rabbia uno dei punti centrali del lavoro psicoterapico. In questo tipi di pazienti l’incapacità di modulare la rabbia è più evidente rispetto ad altri disturbi psicopatologici, perché il depresso non riesce a controllare gli scoppi di rabbia. Pertanto è indispensabile mettere a fuoco l’andamento di questi scoppi di rabbia, perché i depressi sono estremamente sensibili a tutte le esperienze di perdita. Da qui la rabbia e la disperazione.

Per il depresso però rimane la perplessità dopo lo scoppio d’ira, nel senso che non sa come sia potuto accadere. Se si osserva la scena come fosse in uno schermo, si vede chiaramente che il paziente, ad es, era stato salutato “normalmente” e non con entusiasmo. Questo fatto lo fa sentire poco importante e poco apprezzato. Il lavoro terapeutico, in quest’ottica, deve ricostruire com’è fatta la perdita quotidiana del paziente, momento per momento.

Non comprendere questo delicato passaggio pone un forte limite alla cura!

Il depresso vive la repentinità del senso di sé, oscillando tra helpness (destino di condanna, perdita) e rabbia (senso che il destino è di elezione e di privilegio), in poco tempo, talvolta in venti minuti e quindi il paziente fatica ad accorgersene. Lo sguardo di una persona può far cambiare in modo repentino il senso e il significato attribuito dal depresso.

Per concludere ritengo che queste conoscenze sul funzionamento mentale del depresso siano utili anche ai parenti del paziente che soffre di depressione, con la finalità di rapportarsi in modo più consapevole ed efficace.

Data pubblicazione: 27 ottobre 2011

6 commenti

#1
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Dr. Giuseppe Santonocito

Complimenti, Angela, ottimo post. L'idea che di solito si ha della depressione è fuorviante e imprecisa, quest'articolo contribuisce a fare chiarezza.

#2
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Ex utente

ma avvertire senso di inquietudine o tristezza, senza per questo rinunciare alle proprie attività o rallentare la propria vita, può essere anche una forma di depressione? fare cose importanti senza grande motivazione, ma comunque farle, è depressione?

#3
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Dr.ssa Angela Pileci

Caro Giuseppe, ho deciso di scrivere questo post partendo dai bisogni poco espressi dai parenti dei miei pazienti, i quali sono molto spesso disorientati e confusi, talvolta spaventati davanti ad una patologia così invalidante ma "invisibile" come la depressione. Ritengo sia molto importante intervenire con frame psicoeducativi a disposizione di parenti e amici del paziente depresso, perchè possono rappresentare strumenti importanti nelle dinamiche relazionali, promuovendo comprensione e cambiamenti.

#4
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Dr.ssa Angela Pileci

Gentile Utente,
alle Sue domande dovrei rispondere "dipende". Intendo dire che c'è caso e caso e, ad ogni modo, bisognerebbe valutare la persona attraverso un primo assessment.
Diciamo che, in generale, coloro che hanno un organizzazione di personalità di tipo depressivo, ovvero un modo di stare nella vita e di leggere la realtà circostante in questo modo, sono persone con caratteristiche ben precise: non rinunciano alle proprie attività e non rallentano la propria vita, anzi sono molto affidabili al lavoro e "rigano dritto" in molti ambiti della propria vita, sono persone spesso di successo al lavoro, ma sentono una profonda tristezza e insoddisfazione perchè i loro bisogni più profondi e i bisogni d'amore, accudimento e protezione non sono per loro soddisfatti. Nel mio post mi riferisco in particolare a persone con questo tipo di organizzazione di personalità. Sono persone che difficilmente arrivano a chiedere aiuto perchè la richiesta d'aiuto è per loro inaccettabile: si sentono deboli e bisognosi di accudimento e questo non riescono a permetterselo.
Detto questo è chiaro che la diagnosi di depressione deve essere posta dal medico psichiatra o dallo psicologo e contestualizzata.
Per quanto riguarda il trattamento, come ho spiegato, è fondamentale intercettare tali passaggi.

#5
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Utente 142XXX

Buonasera. Ho letto con piacere il suo articolo perchè mi riconosco bene in quello che scrive... ma sinceramente essere un po' tristi da diverso tempo ... non lo vorrei ricondurre ad uno stato depressivo almeno spero.
Infatti per combattere questa tristezza cerco di tuffarmi al massimo nella mia attività lavorativa per non pensare ... anche se questa non offre certo soddisfazioni ... anzi negli ultimi tempi ho manifestato due crisi di rabbia ...che quasi non mi sono ricosciuta...Eppure credo di non che non mi manchi l'affetto dei miei cari ....anzi forse alle volte anche troppo..
Speriamo sia un momento ..e passi-... scusi se ho preso il suo articolo per manifestare il mio disagio ma ne terrò conto se questo stato persiste.
Grazie

#6
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Dr.ssa Angela Pileci

Gentile Utente,
la ringrazio per l’ottima osservazione perché mi costringe a fare alcune precisazioni importanti:
- La tristezza è un’emozione fondamentale che serve alla nostra sopravvivenza e che ci segnala situazioni interne o esterne che è bene non trascurare perché sprecheremmo inutilmente energie. Ad esempio dopo un lutto avvertiamo la tristezza e il suo scopo è quello di darci il tempo necessario per riorganizzarci dopo la perdita di una persona cara e non prendere decisioni avventate. Non è possibile per nessuno di noi vivere in uno stato costante di felicità o euforia perché non avremmo segnali utili per la sopravvivenza (la tristezza, l’ansia, la rabbia, ecc…). La tristezza però non sempre coincide con la psicopatologia.
- Non è vero che il genitore non voglia bene al figlio che poi ha una organizzazione di personalità di tipo depressivo; è il significato personale che il figlio attribuisce alle cure del genitore, alle attenzioni o mancanze e in generale alla realtà circostante che determinano una lettura della vita di un certo tipo (in questo caso depressiva)
- Tuffarsi in altre attività potrebbe essere un modo per non pensare a contenuti più dolorosi; più in generale chi funziona in modo depressivo è molto preso dal lavoro perché questo diventa un mezzo per guadagnare l’amore degli altri significativi.

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