
Dostojesvkji dei fratelli D'innocenzo: il DOC che sembra impulso

Per quelli che hanno visto o vedranno la serie breve Dostoevskij dei fratelli D'Innocenzo, proiettata al cinema in due spezzoni a breve distanza, e poi in onda a puntate su Sky e altri canali (io l'ho visto anche su Now).
Per me l'iniziale curiosità era vedere Filippo Timi, personaggio centrale de I delitti del Bar Lume, in veste drammatica e anzi noir. Il noir è una variante del film basato su misteri da risolvere, quindi ad esempio poliziesco, o giallo in generale, in cui però il clima generale è cupo, e il protagonista è un elemento dal ruolo non positivo, o dubbio, o messo in dubbio.
Può essere il colpevole di qualche crimine, così come un sospetto, o un personaggio ambiguo, o comunque qualcuno che, anche se in posizione ufficiale “positiva” come può esserlo l'investigatore, ha aspetti torbidi o non limpidi. Inoltre, anziché esservi una tensione verso una soluzione finale che ristabilisce l'equilibrio morale, vi è una morale autodistruttiva, e anche un tono generale in cui i personaggi sembrano allinearsi su un destino che non risponde a criteri di bene e male, riscossa, rivalsa, giustizia.
Se fosse un genere, sarebbe lo sludge.
Senza saperlo, apprezzavo i D'Innocenzo per “La terra dell'abbastanza” e li avrei apprezzati, stavolta sapendolo, con gli altri due film.
Inevitabile fare degli spoiler o mezzi spoiler. Ma comunque in questo film, paradossalmente, non è così importante. La tensione di sapere chi è l'assassino non è un punto che regge il film, e quindi il film non si affloscia una volta svelato il mistero. Peraltro, non c'è quasi nessun mistero da svelare in maniera così chiara e compiuta.
Diciamo che c'è un tizio che, alla Dario Argento, uccide famiglie lasciando riflessioni compiaciute sulla inconsistenza della vita, che dovrebbero anche comunicare alla polizia un disagio, o un senso, magari fornire indizi nascosti, chissà. La ricerca è surrealisticamente interminabile, e coinvolge una squadra antimostro che la dirige, da un commissariato disperso e pare anti-funzionale (ci sarà il riscaldamento?) in maniera libera, su ispirazione di un poliziotto più coinvolto degli altri, a cui il capo lascia fare, per amicizia e compassione.
È un uomo senza più voglia di vivere, e senza più motivo per farlo forse. Solo, trasandato, già reduce da un suicidio mancato, in realtà sembra quasi voglia “non esserci”, ma non gli riesce, e così c'è per dar la caccia all'assassino. Fin qui, niente di nuovo. Senza sapere il motivo, sappiamo che ha abbandonato in tenera età una figlia (non ricordo la madre se si sa che fine ha fatto), e la ragazza adesso è una tossicodipendente che si vende per soldi, convive con altre ragazze in un riparo di fortuna, ed è ormai estranea ad una vita normale. Non cerca il padre pur sapendo dove sta, mentre lui pare che sappia dov'è, ma le sta lontano. Perché?
Nel cercare il passato dell'assassino in un orfanotrofio, si forma un parallelo tra la storia di questo mostro senza volto, e la propria, di padre che ha abbandonato senza spiegazioni. Si scoprirà, in un crescendo di curiosità e malessere nell'indagine sugli ex ospiti dell'orfanotrofio, che la ragione ha a che vedere con la pedofilia. Il padre avrebbe lasciato la figlia in quanto consapevole di essere pedofilo, e per evitare alla figlia di diventare una vittima, decide di scomparire dalla sua vita. Peraltro, condannandola ad un altro tipo di vittimizzazione, quella dell'abbandono, degli stenti e della legge della strada. La scena in cui lui si confessa è oggettivamente tesa, enfatica al punto giusto e acre. C'è un però, ed è psichiatrico.
Quel che viene descritto non è la pedofilia, ma l'ossessione a contenuto pedofilo. La diagnosi è semplice. Un pedofilo non allontana da sé l'oggetto del desiderio, oppure lo riavvicina, spinto semplicemente da una questione di opportunismo, cioè il principio della preda più facile. Non necessariamente un pedofilo ha spinte verso i propri figli, però se li ha, come in questo caso, e potenti secondo quanto dichiara il personaggio, allora non potrebbe agire in maniera distonica.
Lo può fare se egli crede di avere un istinto pedofilo, ma quello che vive sono in realtà immagini e pensieri intrusivi, di tipo ossessivo, che gli fanno credere di avere un mostro che cova dentro.
Il mostro ossessivo fa paura, è realistico, anzi molto dettagliato per come si manifesta in immagini, pensieri o altro. Ma esso spinge lontano dall'ossessione se possibile, o costringe a fare rituali di rassicurazione. Si vive male ad avere pensieri distonici, cosiddetti “di contrasto”, ma non hanno l'effetto di spingere lontani.
Capita però che qualcuno si metta alla prova, o si convinca, anche per errate informazioni ricevute, che deve evitare ciò che lo ossessiona. Ciò inizialmente funziona, ma in realtà senza che ce ne sia bisogno. Nel libro su cui studiai psichiatria c'era una foto che mi disturbava più di altre, la “donna terrorizzata da uno spago”: una donna seduta ad un tavolo con un pezzo di spago poggiato sopra, che si teneva le mani davanti e provava a guardare altrove, per evitare di vedere lo spago, ma senza riuscire ad andar via.
Doveva controllarlo: controllare che con lo spago non si facesse del male, si strangolasse. Allo stesso tempo era impaurita ma cercava di scacciare la paura con una risposta, e quindi non poteva semplicemente lasciarlo perdere. Doveva sapere che lo spago era lì, altrimenti non ne avrebbe avuto più il controllo. Inchiodata a quel tavolo, a quella paura.
Lo stesso il protagonista della serie. Inchiodato alla sua paura, non può vivere. Può perdersi nell'inutilità della vita dopo avervi rinunciato. Deve sapere che la figlia è viva e “sta bene”, per modo di dire, ma deve starle a debita distanza per il suo timore. Si chiamano ossessioni di contrasto perché si sviluppano “a stampo” su cose a cui uno tiene, ed è per questo che fanno così male, perché toccano esattamente laddove si è più sensibili. Il religioso è ossessionato dalla bestemmia, il timido dal fatto che si possano vedere le sue emozioni, l'eterosessuale dal diventare omosessuale, o segretamente esserlo, l'innamorato dall'odiare o avere pensieri ostili verso il proprio partner, e così via.
A qualcuno viene detto che questi pensieri sono come un mostro che bussa alla porta, e quindi bisogna tenerlo lontano. Che basta poco e entrerebbe, ma sono errori grossolani di valutazione. Le ossessioni bussano fortissimo senza che accada niente di diverso da quando bussano piano. Quello che cresce non è l'azione, l'impulso, ma la paura. E infatti più bussano forte, più si rimane inchiodati.
Una differenza fondamentale tra impulso e ossessione. La compulsione che è poi uno sviluppo dell'ossessione non è (come può suggerire ingannevolmente anche il termine inglese compulsion/compulsory) la spinta irrefrenabile verso l'atto, ma la spinta irrefrenabile verso il pensiero a qualcosa che tenga l'atto lontano. Lo stesso pensarlo a volte è un rituale che è inteso come se la persona ossessionata fosse un vigilante che illumina la sua ossessione con la torcia, e la tiene quindi a distanza.
Sempre troppo visibile per non dare fastidio, e troppo in oscurità per poter serenamente essere giudicata scoperta e innocua.