Dipendenza dalla mania ovvero: Gomorra non può finire così
Il finale di Gomorra ha lasciato, credo, tutti i fans con l'amaro in bocca. Anche soltanto perché è finito. Alcuni sono rimasti delusi proprio dal finale in sé. I due eroi, i due beniamini, contrapposti o alleati stagione dopo stagione, alla fine non la spuntano l'uno sull'altro, ma muoiono nel più anonimo dei modi. Quasi per sbaglio, pare che si offrano il petto alla morte quasi senza capire che devono fare, che viene dopo. È come se improvvisamente la sceneggiatura finisse, in ciglio a un dirupo: dopo, il niente.
Un finale tutt'altro che banale secondo me, e certamente non una mancanza di idee, visto che devono averci pensato a lungo.
Entrambi protagonisti sono incarnazioni della mania. A intermittenza, dopo tentativi di contenere questa spinta che poi ritorna. Con vari cicli di ascesa e caduta, ritornano sempre a confrontarsi sul terreno iniziale. Ciascuno sente che c'è un conto in sospeso, una ragione per cui continuare a vivere. Una questione viscerale, di rivalsa, di affermazione di sé.
Ognuno a modo suo: da una parte Gennaro, il figlio del boss che deve dimostrare di valere quanto il padre, ma allo stesso tempo cerca, in realtà, un padre migliore che lo accolga e una madre che non lo abbandoni. Cerca un fratello che voglia stargli a fianco, qualunque cosa succeda, e che non lo tradisca. Dall'altra parte c'è Ciro, l'orfano che è sicuro dell'amore della madre perduta, ma vive per dimostrare che il figlio del popolo potrà riprendersi il potere dal palazzo del re e comandare in maniera più giusta. Anche Ciro cerca un amico, qualcuno che sia pronto a morire per lui e non a sacrificarlo come invece fa il “padre”/boss.
Le loro sono le cosiddette idee prevalenti, cioè quello che più ci rode dentro, che ci spinge sotto sotto a fare quello che facciamo, al di là dei motivi di facciata o del momento. E sono anche idee dominanti, cioè quelle che monopolizzano l'economia mentale interna, in modo tale che nessun equilibrio potrà essere raggiunto e, al massimo, si potrà vivere nella tensione positiva di chi sta per raggiungere l'obiettivo. Lo tocca per un momento e poi lo perde, come la felicità.
Quando la mania è accesa i personaggi sono spinti da un furore sacro. Pare che essi vadano verso un'ideale irrealizzabile, quel “rincorrere l'impossibile” che esiste dai tempi della tragedia greca (a-mekanon eran, cioè amare l'impossibile, cioè che non può essere materialmente ottenuto, “a-mekanon”).
Finché la mania li spinge sacrificano ogni cosa, perfino i loro affetti più sacri, pur di rimanere in piedi. Ma non si incontreranno mai in maniera risolutiva. Perché la mania non permette mai di essere in pace con te stesso: più sei “allineato” con te stesso, più scatta qualcosa che ti boicotta.
L'euforico patologico è amico di tutti e litiga con tutti. Costruisce una torre e la distrugge. Regala e ruba. Riempie e prosciuga. Tocca il cielo e sprofonda all'Inferno. Gennaro diventa ricco e potente, offre generosamente lavoro a chi lo aiuta, e poi lo usa o lo pugnala alle spalle. Ciro diventa boss e spodesta temporaneamente il vecchio re, ma al culmine di questa parabola uccide la moglie.
Non stiamo quindi parlando dell'alternanza Mania-Depressione. Il danno non sta nella caduta dalla Mania, di cui abbiamo già parlato. Parlo della Mania in sé, in cui più l'eccitamento cresce, più diventa instabile, vorticoso, furioso, e infine anche disperato. Nella vecchia letteratura psichiatrica la stessa Depressione Bipolare era descritta quasi fosse una forma di infiammazione equivalente alla Mania, ma con un'espressione di blocco, di freno. La “melancolia” (umore nero) era una forma di mania, una “mania depressiva”.
Insomma, il bipolarismo è una febbre. Ma il ritorno alla temperatura normale non è facile per chi è passato da quella febbre. Spesso la temperatura normale significa assenza di scopo, raffreddamento, inerzia. Insomma curare la mania e il bipolarismo ha ancora il nodo, difficile da gestire, del ritorno ad una “normale” normalità.
Possono Gennaro e Ciro vivere felici da amici, in pace, magari ricchi sfondati con tutti i soldi fatti?
Parrebbe invece la cosa più difficile. Quando la mania finisce (ed è questa la mia chiave di lettura della fine della serie) finalmente si riconciliano, finalmente sono l'uno uguale all'altro. Pari. E questo perché il primo rinuncia alla sua felicità con la famiglia per l'amico (si sacrifica), e l'altro non lo vede più come il figlio del boss, ma come un amico che vuole comandare “insieme” a lui, e non servendosi di lui. Quando questo accade, vittoria e sconfitta non esistono più, non esistono più il re e il soldato, ricchezza e povertà. Ma è un ideale. Infatti, proprio quando si realizzano queste due posizioni, i personaggi si spengono, si afflosciano in pochi secondi. Improvvisamente diventano mortali, soccombono al primo scagnozzo, alla prima pallottola.
Il bipolare, senza la sceneggiatura pur assurda ed estrema della mania, si sente privo di una trama, di un futuro, di uno sviluppo. Addirittura si sente, in alcuni casi, senza storia. Per questo i personaggi, che pure potevano andar d'accordo fin dall'inizio, cercano la mania che li porterà a spararsi addosso. E alla fine per sfuggire a questa “dipendenza dalla mania” devono in qualche modo rinunciare alla dimensione che dava loro linfa vitale.
Magari, se lo avessero fatto all'inizio, sarebbe stato tutto più facile. Ma ciascuno ha seguito il suo percorso e la sua mania. Lasciando “solo” il suo alter ego o ferendolo.
La depressione non compenserà mai la mania, facendo algebricamente “pari”: anzi, depressione e mania si rincorrono all'infinito. Quando la rincorsa si interrompe o è bloccata, si apre un'altra sfida: scrivere la sceneggiatura della propria vita ad una velocità diversa, senza bisogno di vincere e senza puntare sulla vittoria.