Motivazione, depressione e ciclotimia: la sfida a perdere
Capita di trovarsi a dover ripartire da zero o di essere rimasti indietro. Avere avuto lunghe depressioni, o ricorrenti periodi di umore alterato può aver interrotto carriere di studi, percorsi di vita, mandato a monte ripetutamente iniziative. Le persone che devono ripartire possono trovarsi a lungo in sospeso tra un atteggiamento passivo (appoggiarsi alle famiglie senza fare niente) o velleitario (cioè avere idee su progetti da realizzare ma senza l'iniziativa e la capacità di concepire un inizio da zero). La distorsione cognitiva che ne deriva è più o meno “se capissi cosa veramente voglio potrei iniziare a fare qualcosa”, oppure “devo trovare la motivazione necessaria” o “devo trovare qualcosa di motivante”.
Se non ci sono stati intoppi, le persone a un certo punto imparano a fare alcune cose, raggiungono una certa posizione nelle loro carriere e si trovano una serie di porte aperte. Cosicché, anche se non tutti raggiungono gli stessi livelli, molti si trovano nella possibilità di scegliere e di andare avanti nella vita: in altre parole, che lo vogliano o meno, sono in ballo.
Chi ha avuto un periodo di stop si sente non più in ballo, e per tornarci dovrebbe riproporsi alla vita senza un punto preciso da cui iniziare, senza nessuno che glielo indichi come quando erano bambini e, a differenza di quando erano bambini, con aspettative da adulti.
Allenarsi a perdere come Fantozzi
Cerchiamo una soluzione con un rovesciamento e ci facciamo aiutare da Fantozzi. Proprio lui. Fantozzi è un umile impiegato di una grande azienda, alla totale mercé dei propri capi. Non è solo dipendenza materiale, ma sudditanza psicologica. Fantozzi ritiene di valere quel poco che basta per avere un posto di lavoro, per bontà di chi glielo crea. Accetta che la sua posizione sia quella, anche se la sua autostima subisce delle variazioni inaspettate.
A un certo punto si prospetta un avanzamento di carriera, ma il tutto si verifica con un meccanismo paradossale e grottesco: il capoufficio, appassionato di biliardo, sfida sadicamente i suoi dipendenti, sapendo che lo faranno vincere per timore di ritorsioni. E, beffardamente e con ulteriore sadismo, li premia per questa loro umiliazione con una promozione. Tutti quindi sperano che li inviti a giocare, per avere l'occasione di perdere con il superiore. Che è come dire: se accetti di essere inferiore, allora puoi salire di grado. È un meccanismo utilizzato in molti ambienti ed è rassicurante per i capi, che amano circondarsi di chi non ha capacità da mandare avanti, ma accetta di andare avanti per meccanismi gerarchici e di servilismo.
A questo punto Fantozzi si trova nella posizione peggiore. Alcuni suoi colleghi sanno giocare a biliardo, e quindi possono giocare e perdere apposta. Ma lui, ahimé, non sa giocare. Per perdere bisogna saper giocare. Per perdere apposta sicuramente, perché bisogna avere il controllo della situazione ed evitare di vincere. Fantozzi decide allora mente, dice di saper giocare, ma poi, poco prima della sfida, deve fare un corso accelerato di biliardo. Il maestro di biliardo lo allena duramente: non esiste un corso “per imparare a perdere”, per cui l'allenamento è lo stesso di quello che fa chiunque, lo stesso di un potenziale campione.
Arriva il gran giorno e c'è la famosa scena della sfida a biliardo col capoufficio, di fronte a tutti gli impiegati. Il capoufficio fa il gradasso e si diverte a prendere in giro dall'inizio alla fine il povero impiegato mentre questi sbaglia un colpo dietro l'altro. Un rituale sadico a cui Fantozzi si sottomette con il chiaro scopo di avere poi la promozione. Ma qui scatta il meccanismo “psicoterapico” potenzialmente utile. Fantozzi si era allenato con lo scopo di imparare quel poco che bastava per perdere, ma fatto sta che allenarsi è allenarsi, e si finisce per imparare. Quando poi arriva alla sfida, il suo cervello allenato sa perfettamente come perdere, ma qualcosa è cambiato senza averlo fatto apposta: adesso lui non accetta di perdere. E si ribella a partita quasi persa, ribaltando le sorti con una serie di colpi perfetti.
Provare a non pensare a vincere, ma a imparare
Il senso di questo esempio. Chi ricomincia da capo e pensa di non riuscire a farcela di solito si fissa sulla paura di non riuscire. Così vuole una garanzia di riuscita e non potendola avere (come nessuno), rimane fermo.
Perché allora non allenarsi “a perdere”? Togliendo dalla prospettiva l'idea di vincere, facciamo per un momento nostra la paura. Diciamo che non vinceremo, ma perderemo. Ora che lo sappiamo, gareggiare non è un problema. Ci si allena per ottenere un risultato cattivo, mediocre. Allenarsi, tuttavia, genera un meccanismo automatico, perché l'allenamento non è il risultato, non lo controlla. L'allenamento è un metodo di apprendimento, di sviluppo di abilità. E chi sa, comincia a voler vincere.
Come reagisce il cervello?
Quel famoso meccanismo di motivazione che la persona cercava all'inizio, non interviene né da dentro né da fuori, ma entra di nascosto, attraverso un altro canale, da dove il cervello non lo ostacola. A cose normali i maestri, cercano di fare la stessa cosa, e cioè di insegnare senza che l'allievo sia preoccupato di dove deve arrivare, o di dover essere bravo o primeggiare. Chi si concentra sulla perfezione o sul punto a cui deve arrivare, rischia di non iniziare ad applicarsi, perché la paura di fallire è attenuata dal fatto di non mettersi neanche in gioco.
Prima di poter vincere, bisogna essere in grado di perdere. E per essere in grado di perdere bisogna allenarsi e imparare. In una seconda fase, ad apprendimento avanzato, si innesca invece la motivazione a vincere e a superare se stessi, e quindi la concentrazione sull'obiettivo della vittoria e del livello da superare. Ma questo dopo.
Come nella scena di Fantozzi, la motivazione arriva, e ti travolge, ma dopo “il trentottesimo coglionazzo e a 49 a 2 di punteggio”.