Maradona: l'impossibilità di fermarsi
Da appassionato di album di figurine, ma non di calcio, il mio legame con la storia di Maradona è relativo. La sua figura è comunque esemplare, anche rispetto ad aspetti psicologici. Più o meno chiunque sa delle sue disavventure legate alla cocaina, ma qui vorrei fare una riflessione diversa.
Si dice che abbia rappresentato l'esempio di calciatore istintivo, dorato e noncurante di ciò che si può fare, spinto dal desiderio di realizzare più di quanto fosse preoccupato dalle circostanze. Come chi non proviene da un'infanzia di agi, non si poneva molto il problema della via più comoda o più logica, cercava lo sfondamento.
La sua figura è l'equivalente calcistico di quello che Scarface di Al Pacino è nell'immaginario dei film di mafia. Un boss strapotente che viene dalla strada, affamato di successo e di vittoria, che riesce ad osare non per bisogno, ma per voglia di arrivare in cima.
In questi percorsi il bene e il male, come qualcuno potrebbe volerli distinguere a posteriori, arrivano insieme.
Arrivano, addirittura, generati sulla stessa linea. Solitamente si pensa che da una parte vi sia lo sport, quello sano, verace, che insegna i veri valori del sacrificio e della competizione, che insegna a stare in gruppo e lavorare per un obiettivo comune. E dall'altra le vite dissennate, perse in vizi come la droga, dedicate solo a se stessi e ai propri egoistici obiettivi, con esiti fasulli, distruttivi e un effetto negativo sulla fibra e sul carattere.
Bene, tutto ciò non è vero. Le due cose sono due possibili fasi, rese possibile dalla stessa premessa.
La ragione dell'eccellenza sportiva e quella della degenerazione cocainica possono essere benissimo la stessa cosa. Perché non si tratta di morale, di scelta (che nessuno farebbe per prodursi un danno), ma di rischio connesso al temperamento. Emile Zola chiamava questo destino aperto alla fortuna come alla sfortuna, la “fatalità della carne”; e descriveva storie in cui l'energia vitale facilmente sconfinava nell'eccesso o della devianza, per cui il successo e la rovina erano fasi successive di una stessa vita.
Ad esempio, gli sportivi a riposo forzato sono mediamente più inclini dei non-sportivi a utilizzare alcol e droghe (oltre che cibo) in maniera patologica. Non c'entra il doping, piuttosto c'entra il difficile adattamento al ritmo normale di un organismo abituato alla stimolazione fisica intensa.
Questo aspetto però non è soltanto evidente dopo, spesso lo è già prima della fine della carriera sportiva.
Quando si cominciò a parlare di Maradona e cocaina fu al momento della sua crisi con il calcio italiano. Le prime vere voci sono anteriori, ma la cosa divenne un argomento solo in quel periodo, quasi per giustificare un divorzio annunciato. Anzi, per essere precisi le voci iniziarono in un periodo in cui i suoi risultati non erano eccezionali, per poi ripetersi a distanza di anni in coincidenza con la fine del rapporto con il calcio italiano.
Il male, insomma, fu tirato in ballo quando le cose andavano male. Che in mezzo fosse scomparso magicamente?
Si sa invece che chi attraversa fasi di euforia e di rapida ascesa è soggetto a volere ancora di più, secondo un principio di riverbero, anziché un principio di auto-equilibrio. L'andare oltre può produrre vari tipi di sconfinamento: la droga è solo una.
I detrattori ricordavano che Maradona era sì eccezionale, ma all'occorrenza non disdegnava falli, in particolare rimase famoso un episodio in cui si ha l'impressione che controlli anche con la mano il pallone. Il racconto di quell'episodio è emblematico: si doveva vincere, e poiché era giusto vincere, ecco che anche il trucco pare essere giustificabile. Un “andare oltre”, sia nel bene, con prodezze calcistiche incredibili, sia nel male, con il più banale dei tocchi proibiti. Ma la linea, quella della determinazione, del volere andare oltre, del non saper rinunciare ad un sogno, è la stessa.
La parabola della dimensione “maniacale” (cioè euforica, espansiva, di “elevazione”) è sempre la stessa, nel breve termine di un ciclo mania-depressione così come nell'arco di una vita. Così come il seme della depressione sta nella fase eccitatoria che spesso l'ha preceduta, così un destino di guai e di problemi matura come un frutto dall'albero del successo e della realizzazione.
E' più facile cercare di prendersi cura di chi zoppica, rallenta, non ce la fa. Chi invece è esuberante, in pieno successo, ambizioso di crescere fino ad un massimo e oltre, è difficile da frenare. Non conoscerà ripartenza se non in scatto, non riuscirà a rispondere ad un ostacolo senza accelerare, propri come faceva Maradona mentre dribblava gli avversari. Uno si parava davanti, lo passava, e poi un altro, e poi altri due. Sembrava quasi che l'ostacolo stesso gli ispirasse lo scatto.
Ma secondo la stessa logica, quando invece è la velocità il problema, chi arriva da una fase espansiva non riesce a frenare, non si abitua a decelerare, non accetta di viaggiare a velocità minori.
Cercare di curarlo è difficile come prendere nella rete un pesce velocissimo, e per giunta anche feroce, che morde la rete. Egli non è una persona stanca che va aiutata a sollevarsi da terra. E' più simile ad una mongolfiera che non si riesce più a far atterrare, e spesso torna giù perché si fora e precipita, o finisce il carburante.
Nella bipolarità, nella dimensione maniacale che si esprime a vari livelli, dal temperamento di partenza alla vera e propria fase, non vanno cercate le distinzioni morali, che non ci sono. Il buono e il cattivo sono opzioni.
Quello che invece conta è cercare di riportare i giri del motore giù senza far percepire troppo la decelerazione, ed evitando lo schianto. Il paziente maniacale spesso vive questa compresenza dell'eccitamento buono e di quello cattivo in un unico tipo di sensazione “grande” e potente, non sezionabile. E spesso soffrono quando fanno del danno, perché alla sommità di quel male, spostandosi di poco, ci sarebbe stata una sommità di bene.
Così come in un genio calcistico coesistono lo spettacolo del dribbling infinito e la sorpresa del fallo di mano. In termini tecnici si chiama disforia da contrasto: se mi fermano e non passo, spintono e scavalco.