Covid-19: resistere in casa, è normale stare male
Il distanziamento sociale per ora è l’unica strategia efficace per rallentare il contagio. La reclusione forzata continua, anche se si pensa a un futuro cauto riavvio di alcune attività economiche.
Chiusi in casa trascorriamo molto tempo ad ascoltare i notiziari e a comunicare via social.
Si può facilmente notare però come l’esperienza che stiamo vivendo venga raccontata in un modo poco coerente, che ricorda da vicino la comunicazione a doppio legame della psicologia sistemica.
In tv, sui giornali, sui social troviamo esperti di tutti i tipi, virologi, epidemiologi, pneumologi, che forniscono informazioni, commenti, mostrano grafici complicati e di solito sono in disaccordo gli uni con gli altri.
Vediamo le immagini angoscianti dei morti in Ecuador, il lugubre corteo di camion militari da Bergamo, gli ospedali in affanno, gli annunci mortuari, tanti, sul giornale locale. In una piazza San Pietro lucida di pioggia il papa, solo, prega per l’umanità intera.
Leggiamo e sentiamo le storie dei sopravvissuti, di quelli che non hanno neppure potuto piangere i propri cari confortati dai riti funerari, le lotte di medici e infermieri per salvare vite.
Poi si gira canale, e famiglie sorridenti con bimbi simpatici cantano e suonano, imparano a fare pizze e pastiere, raccontano di come si sono ritrovati e di quanto è bello stare in casa, tanto è tutto a portata di click.
In tivù ci sono i cartoni animati, i western, i quiz, ed è giusto, perché bisogna distrarre le persone chiuse in casa. Fuori, almeno al nord, chi abita vicino all’ospedale sente le sirene delle ambulanze, o l’elisoccorso.
Tutte queste informazioni tutte insieme creano un senso di straniamento e disagio.
Intanto c’è casa e casa, da abitazioni spaziose con giardini e terrazzi a monolocali con vano cottura. Tolstoj aveva perfettamente ragione quando diceva:
“Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo.''
Ci sono coppie che si sopportano a stento e ora devono convivere tutto il giorno, mogli alle prese con mariti violenti, adolescenti alla prima cotta che scalpitano, famiglie con figli tossicodipendenti che scappano a cercare la dose.
Tanti anziani soli evitavano il deterioramento psicofisico frequentando un bar o un centro sociale, o semplicemente davano ritmo alle giornate uscendo a fare la spesa. Ora si trovano la spesa sul pianerottolo o nell’ascensore, possono parlare coi nipotini su whatsapp, ma non è la stessa cosa.
Se il vaccino non viene trovato si parla di tenere gli anziani e le persone fragili chiuse in casa fino a Natale. Necessario, certo, ma deleterio per la salute fisica e mentale.
Anziani persi in case troppo grandi, con i ricordi di una vita ormai passata, o in abitazioni fatiscenti e malsane.
Ci sono poi le vite sospese, di chi era lontano dalla propria casa e per ora non può tornare. Un’amica di origine giapponese è bloccata a Tokyo dai genitori, non può rientrare in Virginia dove il marito è rimasto da solo. Anche in Italia ci sono molte situazioni simili, e sono difficili da accettare.
Tornando ai media e ai social, si avverte nelle trasmissioni più “leggere” e da parte di molti “amici” e contatti (quelli che quotidianamente postano video e immagini carine e positive) una richiesta perentoria di vivere la reclusione come un’opportunità, di essere nonostante tutto allegri, proattivi, pieni di energia.
Chi non sta alle regole, chi evade, viene chiamato “furbetto”, rincorso dai droni, pesantemente multato.
Nei condomini spuntano gli inquisitori da pianerottolo, i Torquemada da cortile, che contano quante volte la signora Gina va in farmacia o il signor Matteo porta fuori il cane. Si inveisce dalle finestre contro i presunti trasgressori. Manca l’empatia, la tolleranza, la rabbia a volte esplode in modo incontrollato.
Come psichiatra sono preoccupata per la situazione che si sta creando.
Un conto è evitare il panico, un altro è imporre, pur senza volerlo, ma comunque senza pensare ai possibili danni, un modello di resilienza che non è realistico. Così non solo tante persone sono stressate, angosciate, rabbiose e insonni, ma si sentono anche in colpa per sentirsi così.
Ne usciremo, una parte del cammino è già stato fatto, ma ne usciremo psicologicamente provati, alcuni con problemi economici, altri con matrimoni finiti. Purtroppo molti dovranno elaborare lo strazio di non aver potuto assistere i propri cari, di non averli nemmeno potuti salutare sul letto di morte, e questo è un dolore terribile, difficile da superare senza aiuto.
Abbiamo pieno diritto di avvertire rabbia, angoscia e disperazione. La reclusione forzata non ci fa diventare migliori, ci stressa e basta. E non ci rende nemmeno tutti uguali: c’è chi a fine mese ha uno stipendio o una pensione e chi no, chi ha un terrazzo per prendere il sole e chi vive in una piccola mansarda con la finestra sul tetto.
Imparare a gestire le emozioni negative, da soli o attraverso la psicoterapia è utile e ragionevole, ma le canzoncine e “#andrà tutto bene” lasciamoli agli under 10, per la salute mentale di tutti.