Coronavirus: quando il gioco si fa duro
Non finirà presto. Le giornate iniziali di confinamento sono trascorse in modo tutto sommato leggero, organizzando attività per i bambini, cucinando, scambiandosi meme divertenti sui social, organizzando flash mob sui balconi.
Le immagini degli ospedali intasati, dei sanitari stravolti, delle città deserte, soprattutto per chi non abitava nelle zone più colpite, impressionavano al momento, provocavano angoscia, ma sembravano lontane, quasi irreali.
Il pensiero, che in psicanalisi viene definito subconscio e in terapia cognitiva pensiero automatico, quindi non pienamente cosciente, era: facciamo questo sacrificio, e da dopodomani le cifre, le maledette cifre, scenderanno e potremo riprendere la vita di prima. Andrà tutto bene.
Ora cominciamo a renderci conto che il mondo sta cambiando, non solo il nostro mondo piccolo, ma tutte le nazioni. Questo nemico invisibile sta modificando equilibri economici e politici. Quando finirà, e finirà di sicuro, niente sarà più come prima.
Cominciamo a perdere persone che conosciamo, e a perderle in un modo che non consente neppure i riti funerari, l’elaborazione collettiva del lutto. I malati entrano in ospedale, e se purtroppo muoiono alla famiglia viene restituita una bara chiusa. Muoiono medici, sacerdoti, vicini di casa.
Quando finirà? Ce lo chiediamo tutti, ma soffermarsi su questa domanda non serve, perché la risposta non c’è. Oggi come non mai la strategia migliore è concentrarsi su quello che si può fare ora, per la propria famiglia, per i vicini di casa anziani e in difficoltà, vivere un giorno dopo l’altro, come facevano i nostri nonni in tempo di guerra.
In questa crudele primavera capiterà di rimpiangere le gite all’aria aperta, i viaggi nelle città d’arte, la pizza con gli amici, la spiaggia. È comprensibile, ma fissarsi su quello che ci stiamo perdendo impedisce di vivere adesso, ci rende irritabili, depressi, o peggio ci induce a compiere azioni che mettono a rischio la vita degli altri.
Restiamo a casa, noi che possiamo, inventiamoci ogni giorno cose da fare, leggiamo, telefoniamo agli amici e ai parenti, teniamo impegnati i bambini. Bisogna fare uno sforzo, un grosso sforzo di volontà, andare contro l’istinto.
Di fronte a un pericolo la reazione istintiva, perfezionata in migliaia di anni, è di lottare o fuggire: fight or fly. Purtroppo in questo caso non serve, la risposta utile è stare in casa.
In caso di pericolo l’uomo, animale sociale, cerca il contatto fisico e il conforto dei suoi simili, si riunisce, si abbraccia. Anche questo non si può fare.
Durante la persecuzione nazista tante persone, famiglie intere, sono rimaste nascoste per mesi in soffitte, in polverosi sgabuzzini, mangiando quel poco che i loro salvatori potevano recapitare a rischio della vita. Quando iniziavano a cadere le bombe potevano solo sperare che non cadessero sul loro rifugio. Una vita terribile, ma il nemico lì era ben visibile, non c’era scelta.
Noi fatichiamo a mettere in relazione i necrologi con l’innocente scappatella per incontrarsi con la “morosa” o tirare due calci al pallone in un campetto.
Combattiamo un nemico tanto invisibile quanto implacabile, e lo possiamo fare in un modo solo: isolandoci e restando a casa. Per tutto il tempo che ci vorrà.