A letto col nemico: la paranoia e il suo Palazzo del Terrore

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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

Un celebre film intitolato "a letto col nemico" descriveva la storia di una donna che ad un certo punto finge sottomissione al marito psicopatico e violento per riuscire a simulare la morte e rifarsi una vita. Ci sono invece situazioni in cui la persona cerca di difendersi rimanendo davvero vicino al nemico, o addirittura volendolo vicino. Come la paranoia.

 

La paranoia è una condizione presente in una serie di disturbi psichiatrici. Anche se può essere intesa come sinonimo di “pensiero delirante”, in termini più specifici indica i deliri persecutori, cioè quelli in cui la persona lamenta la presenza di persone, più o meno concretamente identificate, che compiono azioni ostili, lesive o vessatorie nei suoi confronti, o che guidano o manipolano la realtà circostante al fine di condizionare, spiare in maniera malevola, o indurre la persona a determinate azioni, in maniera subdola, indiretta o per prepararsi ad azioni più dirette e definitive.

In una forma di psicosi, detta semplicemente “paranoia” o “disturbo delirante”, questa forma di delirio è presente in una forma particolarmente “fredda” (non agitata) e organizzata, cosicché la persona non risulta sganciata dalla realtà, o incapace di gestire la propria vita, ma anzi può farlo a livelli anche elevati. Tuttavia, questo si accompagna ad una rigida adesione al convincimento che esistono “forze” esterne in attività contro di lui, che identifica in maniera fissa o cangiante con persone specifiche.

Quel che rimane fisso nel delirio è tipicamente il sistema generale, il “complotto” che la persona è convinta di aver individuato, e che tiene sotto controllo. Cambiano gli attori, ma il copione rimane quello. Il complotto è qualcosa a cui affluiscono persone vicine, sconosciuti, persone già in origine non gradite o amici, presenze costanti o occasionali. In questo senso la volontà ostile alla persona è come se si identificasse non con uno o l'altro dei persecutori, quanto con una volontà superiore, che emana il complotto, e a cui gli altri aderiscono in maniera non casuale, quasi ne rispettassero delle regole scritte uguali per tutti, verso uno scopo comune che non hanno deciso, ma a cui aderiscono.

 

Il corrispondente non patologico della paranoia sono ad esempio le cosiddette “teorie del complotto” sono oggetto di discussione, di pubblicazioni e anche di rappresentazione cinematografica. Si intende quella visione di un problema, di solito con implicazioni che investono poi l'intero mondo e il complesso della storia dell'uomo, in cui una minoranza occulta di soggetti seguono un piano per avere il potere, o per celare una verità, o per manipolare la storia nella direzione voluta. Questo accordo coinvolge tutti, in questo caso con un grado di consapevolezza massimo per i capi, minimo per chi si trova a obbedire agli ordini per pura convenienza, senza sospettare nulla. Il fascino della paranoia sta nel fatto che essa, come tutti i deliri, produce una verità che corrisponde ad una convinzione assoluta, incontestabile, e intuitivamente evidente. La persona che delira può non sapere quando e come ha iniziato a pensarla così, ma questo è irrilevante: crede che sia vero, gli appare così, gli risulta evidente così. Quella convinzione, anche se negativa, spiega tutto, non lascia dubbi, è definitiva, e fa quindi sentire nella posizione di chi ha capito ogni cosa, di chi ha trovato il bandolo della matassa.

 

Alcuni fenomeni persecutori veri, tipo il mobbing o lo stalking, diventano facilmente oggetto di un delirio paranoico, anche se visitando la persona non è difficile intuire la costruzione delirante della convinzione, e distinguerla dal fenomeno realmente esistente. Altri fenomeni sono vere e proprie teorie del complotto, ma concepite secondo una logica paranoide, come lo stalking collettivo organizzato (gang), per cui la persona si ritiene vittima di comportamenti di una moltitudine di persone, che ritiene volti a disturbarlo o farlo impazzire, o controllarlo.

 

Qual'è il comportamento più particolare del paranoico? Di tutti, è quello di star vicino al persecutore. Il paradosso è che il perseguitato finisce per perseguitare il suo persecutore. Lo pedina, gli fa la posta, lo controlla, gli rivolge allusioni, lo fa seguire. Addirittura, può trovare scuse per stargli vicino, proprio per la necessità (assurda) di controllarlo, non certo per capire se lo fa apposta. In sostanza, per coglierlo sul fatto, in attesa di carpire l'ammissione del complotto, la prova inconfutabile di una cosa che sa già, come dovesse presentarla in un ipotetico tribunale. E' come se avesse deciso che qualcuno è colpevole, ma gli mancasse di raccogliere le prove, in maniera convincente. Il paradosso è che la discussione di quanto le prove siano evidenti oscilla tra la ricerca di un livello di evidenza della prova in sé, e la spiegazione dell'evidenza in maniera deduttiva, cioè sulla base del convincimento che c'è già.

 

Un aneddoto storico che quasi rappresenta l'architettura del pensiero paranoide è quello del “Palazzo del Terrore” di Stalin. In un sistema in cui il nemico era per definizione l'anti-comunismo, l'attenzione del dittatore si rivolge invece maggiormente al nemico “interno”, secondo l'idea che il rischio maggiore proviene dalla vicinanza. Il paranoico infatti spesso intesse rapporti, anche amicali o sentimentali, ma finisce per includerli nel complotto proprio quando diventano molto vicini. Gli alleati divengono facilmente cospiratori, i servitori fidati divengono spie del nemico, e così via. Una reazione può essere quella di disfarsene e di allontanarli, ma se la paranoia è meno agitata il ragionamento è quello di un Servizio Segreto: la spia o il nemico devono essere controllati senza che se ne accorgano, magari facendo finta di aver concesso loro di stare vicini a chi vogliono colpire.

Il Palazzo del Terrore (https://www.youtube.com/watch?v=NkLEYW-q1II) era un grande collegio del Partito in cui si ospitavano le famiglie dei dirigenti che lavoravano a Mosca, un albergo lussuoso ma egualitario, in cui tutti erano serviti e riveriti, on un rigido controllo su chi entrava e usciva. L'intento iniziale subì una deriva paranoica, e si trasformò in una specie di anticamera dell'eliminazione fisica di chi era sospettato di tradimento. Nel sospetto, la persona era avvicinata a Mosca, e di fatto costretta a vivere dentro questa struttura piena di microfoni e telecamere, alla ricerca di passi falsi. Quasi inevitabilmente chi passava dal quel Palazzo finiva male. Le persone sapevano alla fine che questo era lo scopo, ma il solo dirlo sarebbe stata prova che essi avevano la coscienza sporca.

Sistemi simili sono presenti in alcune organizzazioni criminali. Nella Mafia rappresentata in Donnie Brasco, per esempio, il personaggio di Lefty sintetizza la Mafia come “persone che ti conosci che ti mandano a uccidere altre persone che conosci”, con ciò spiegando la differenza tra una Mafia e un esercito, in cui i generali sono sconosciuti che ti mandano a uccidere altri sconosciuti. Nelle famiglie mafiose i traditori erano tenuti legati fino al punto da maturarne l'eliminazione, con prove che spesso erano false, strumentali ad un passaggio del potere da un gruppo all'altro.

 

La condivisione diviene talora talmente stretta che la persona ipotizza complotti (per esempio avvelenamenti) da parte di persone con cui condivide il cibo, anzi da familiari che glielo preparano. Mentre rispetto a un nemico sconosciuto che cerca di avvelenarti sarebbe ovvio mangiare da solo cibo che ti procuri da solo, se il nemico è persona nota la paranoia ti dice di lasciarlo lavorare accanto a te, fino a quando non si tradirà. Benché si possa pensare che il fine ultimo sia quello di organizzare un “processo” al nemico, sta di fatto che il paranoico sembra appagato del suo controllo, della raccolta di prove, più che di un momento finale, che peraltro già potrebbe avvenire con un singola prova. Egli sembra cioè preso dall'idea di dover spiegare il dettaglio della persecuzione, a documentarla mentre si svolge, coerentemente all'idea di base di identificare determinate persone come “persecutori”. Non che non ci possa essere un momento finale, ma non è ricercato in particolare. Se il momento si verifica, e un personaggio cade, è sostituito da un altro.

 

Proprio come nelle stanze del Palazzo del Terrore, che si liberavano per accogliere prontamente qualcun altro.

 

Data pubblicazione: 29 luglio 2018

45 commenti

#1
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Nel nostro secolo nn si potrebbe definire omertà, o peggio paranoia causata dalla paura" dell'altro'?

#2
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Omertà non lo capisco, paranoia causata può essere, ma non cambia il senso, anzi. La paura dell'altro spinge a evitarlo, se è tale. La paranoia spinge a tenerlo vicino.

#3
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Salve, le vorrei fare una domanda: può un bambino che in età prescolare ha vissuto maltrattamenti e abbandono sviluppare paranoia nei confronti dei terapeuti e delle figure di autorità? Anche se a questo punto il "controllo" servirebbe sia ad evitare sia di essere maltrattato che di essere abbandonato..

#4
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Bisognerebbe conoscere meglio la genesi dei maltrattamenti e il contesto. In realtà la paranoia come parte di un disturbo post-traumatico ci può essere, mentre la paura abbandonica fa pensare più ad un quadro indipendente di altro tipo, poiché il paranoico non cerca il controllo dell'altro per paura di essere abbandonato.

#5
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Il contesto è abuso emotivo, maltrattamento fisico e trascuratezza fisica e emotiva. No abuso sessuale nel contesto intrafamiliare.

#6
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Credo che ci sia un po' di confusione su questo termine, perchè spesso si parla di paranoia in termini di paura dell'altro non giustificata da prove concrete e percezione "dell'altro" come incontrollabile, minaccioso, dal quale ci si può solo nascondere. Questa ultima cosa invece come si chiama?

#7
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Non è solo una percezione, è proprio un giudizio. Cioè non è che io "sento" l'altro con timore e sospetto, è che so che mi sta facendo qualcosa di negativo, anche se potrei non riuscire a spiegare che cosa, e esattamente chi.

#8
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In altre parole la differenza sta nella certezza, nella incontrovertibilità della percezione negativa del comportamento dell'altro. Ha più a che fare con la visione negativa di sè stessi o dell'altro? In altre parole, ci si sente "vittime innocenti" o vittime di una specie di "colpa originaria" che non è possibile espiare neppure con un comportamento irreprensibile? Poi non la tedio oltre.

#9
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No, ha a che fare con la produzione spontanea del pensiero. Se io "so" non ho bisogno di spiegazioni al fatto che so. Io so che costui mi vuole male, dopo di che cercherà di capire cosa sta complottando. non è una percezione, una sensazione, è proprio un pensiero.

#10
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Gentilissimo, grazie.

#11
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Utente 272XXX

La descrizione e racconti di patologie psichiatriche che Lei fa,associate spesso a vicende e periodi storici/politici ,sono sempre fonti di interesse e curiosità
Cmq nel caso di stalin,non si trattava di paranoia,i suoi sospetti avevano fondamento infatti il comunismo é caduto per colpa dei traditori interni
Anche hitler all interno dell NSDAP aveva traditori che provarono ad ucciderlo il 24 luglio

#13
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Dottore, mi perdoni, un'ultima domanda. Penso che concorderà che l'abuso infantile è una grave invalidazione dell'esperienza del bambino da parte del genitore che, mentre gli fa del male, continua a ripetergli che gli vuole bene. Potrebbe questo predisporlo a non credere a nessuna manifestazione di affetto positivo da parte degli altri e quindi a quella produzione del pensiero di cui parlava?

#15
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Se posso brevemente intervenire, i disturbi mentali non sono un avvincente racconto mitologico. Quello è l'errore di credere che la mente viva di vita propria, segua una sua storia interna, abbia i suoi simbolismi interni etc. Non funziona così. Si finisce per fare della letteratura magari intrigante, ma di pratico niente. Anzi, si comincia a equivocare che i sintomi debbano indicare qualcosa di misterioso, o di coperto, e che le manifestazioni non vadano trattate per quello che sono ma per quello che significano. Esse "significano" qualcosa che sta a monte, che è il cervello, non a valle, che è l'interpretazione.

Chiusa parentesi.

Per commentare invece il discorso della paranoia politica, un esempio di verosimile paranoia riferito a Hitler non era tanto quando cercavano di ucciderlo (plausibile, infatti lo fecero), ma ad esempio quando stava per vincere sugli anglo-francesi con la guerra.-lampo, e si comportò come chi crede che i generali, impazienti di dare il colpo di grazia, volessero fare qualcosa si strano. Fece fermare le truppe permettendo che gli anglofrancesi fossero messi in salvo in massa, senza alcun motivo. Più aveva successo, più le decisioni divenivano timorose del pericolo derivante dalla fonte del successo.

#16
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Bella posizione, rassicurante. La mente emerge dal cervello, basta agire sul cervello - del cui funzionamento siamo ancora in larghissima parte all'oscuro - e andrà tutto a posto. Ma il cervello non è un sistema chiuso, anzi, è aperto, completamente permeabile all'esperienza e soprattutto alla relazione. E se si è cresciuti dalla tenerissima infanzia con un genitore paranoico o in un contesto particolarmente violento, che racconto mitologico è pensare che si sarà propensi alla paranoia? Ma forse ci sono cause genetiche (è sarcastico), che sono ancora più rassicuranti perchè ci aiutano a pensare che la malattia mentale a noi non capiterà mai, perchè noi siamo sani "di famiglia". Inoltre, ci aiuta a dimenticarci più facilmente di difendere i nostri piccoli.

#17
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" che racconto mitologico è pensare che si sarà propensi alla paranoia?"

Sì, sostanzialmente non è per niente scontato. Permeabile non significa che uno si comporta come gli altri che lo circondano, anzi accade tendenzialmente il contrario. C'è una resistenza strutturale al fatto che si apprenda dall'ambiente, si tende invece di più a svilupparci secondo schemi già previsti. Sono i classici studi sui gemelli monozigoti cresciuti in ambienti diversi.

Guardi, il problema che la risposta sia rassicurante o meno è sua. Per quanto mi riguarda questo è più o meno quel che risulta. Non vedo cosa sia più rassicurante tra pensare una cosa totalmente predeterminata e una totalmente dipendente da come si cresce.

Anche dare la colpa a qualcuno alla fine, se non è rassicurante, diventa un modo per sfogarsi, perché alla genetica non si può dare una colpa.

La medicina non si occupa di stabilire chi sia buono, chi abbia sbagliato, chi sia immorale o cose del genere. Quindi quando si vuole definire questo tipo di categorie, si può tranquillamente lasciar perdere la conoscenza del cervello. Al limite in tribunale può interessare fino a un certo punto come sia definibile la responsabilità in termini di libertà di scelta.

#18
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Mio caro dottore, io non penso assolutamente che siamo interamente dipendenti da come si cresce, anzi, credo nel ruolo della genetica per quanto riguarda l'umore, il qi o la resistenza allo stress, tutti fattori che evidentemente giocano un ruolo nello sviluppo della personalità.
Non sarei qui a parlare con lei altrimenti, nè probabilmente lei con me.

Ma la prego, non invochi l'oggettività della medicina e tantomeno della psichiatria a meno di un secolo dal gesto di Donaggio (e degli altri, per carità, non voglio buttare la croce su nessuno). Mi piace pensare che sappiate chi siete e da dove venite. La verità è che i dati delle ricerche e persino la vostra esperienza clinica sono ampliamente soggetti all'interpretazione.

#19
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Soggetto all'interpretazione è tutto, non capisco dove vuole arrivare. La medicina bisogna conoscerla. Oggettivo e soggetto a interpretazioni non sono cose diverse, qui stiamo parlando di dati scientifici. Il dato è soggetto a interpretazione. Anzi, può non averne alcuna, essere solo un dato che nessuno neanche ipotizza cosa possa significare. Quindi sono due discorsi diversi.

Lei ha un'avversione nei confronti della medicina, e in particolare della psichiatria, che produce una deriva sulla critica generica. Se il punto d'arrivo deve essere dire che la conoscenza è imperfetta, mi sa che questo è il punto di partenza di ogni conoscenza accettabile.

Detto questo, non ho idea di chi sia il Donaggio a cui fa riferimento.

#20
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Forse si riferisce ad uno psichiatra di un secolo fa, ma non capisco che c'entri. E la pregherei di non partire con polemiche non attinenti alla materia del post.

#21
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Dottore, il fatto di essere stata totalmente fraintesa indica che non mi sono espressa affatto bene. Nel commento mi riferivo ad Arturo Donaggio, presidente della Società Italiana di Psichiatria e firmatario assieme a Segrè del Manifesto della Razza (1938).

In realtà sono profondamente grata a chi svolge il suo lavoro, di cui riconosco la complessità. Sono in particolare grata al mio, di psichiatra, che stimo moltissimo.

Solamente puntualizzavo che un disturbo di personalità forse si presta poco agli approcci organicisti utilissimi per altri disturbi.

#22
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Mi correggo, non ad approcci organicistici, che alla fine sono utili ed operativi anche nei disturbi di personalità, ma riduzionistici. Ora la smetto perchè sono già stata sin troppo arrogante. Grazie per avermi risposto.

#23
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I disturbi di personalità sono i costrutti meno affidabili che siano stati concepiti. Tipicamente multipli, funzionano solo come "aree" (A,.B, C). Peraltro uno degli equivoci maggiori è che l'avere un quadro pieno e completo di un certo tipo non significa avere un "disturbo", e nelle forme di tipo A è molto probabile. Di fatto, gli altri quadri sono simili a versioni attenuate e preimpostate dei corrispondenti disturbi di "asse I".

Sul discorso del riduzionismo, penso che sia un falso problema. La conoscenza di un fenomeno è difficile se si mettono in ballo molti fattori, perché a livello statistico diventa impossibile definire alcunché. Per questo ci si concentra sull'ipotesi di studiare un fattore, nella speranza che sia quello determinante, centrale, minimo sufficiente. Quindi non è il voler per forza ridurre una complessità ad una semplificazione, ma il lavorare su ipotesi monofattoriali come impostazione di ricerca. Inoltre, c'è da capire che quando si afferma che i problemi sono "complessi" e multifattoriali, non è che con questo si voglia dire che si conoscono come tali, ma che sostanzialmente non ci si è capito nulla di preciso.

#24
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Ok, ma allora mi vengono in mente almeno altre due domande.

La premessa è che la persona con disturbo paranoide di personalità ha questa produzione del pensiero non delirante, nel senso di non assurda, ma comunque in grado di irrigidire la persona in un unica risposta alle situazioni, quindi lesiva delle sue capacità di adattamento all'ambiente. Voi la trattate come fosse una psicosi attenuata? E la produzione del pensiero suddetta recede con gli antipsicotici? E la paura e l'aggressività recedono?

La seconda domanda è: immagino che se questa persona si rivolge a voi non è certo per la paranoia, che percepirà come protettiva, ma per ansia, depressione, somatizzazioni, ecc Sarà anche una persona che prenderà con le molle qualsiasi prescrizione, molto ben informato, scrupoloso. Come fate a dargli un farmaco diverso da quello che lui si aspetterebbe, senza mentirgli e senza mandarlo ulteriormente in crisi di fiducia?

#25
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Questa è una domanda interessante. In realtà la trattiamo per modo di dire, nessuno viene a farsi curare per questo. E' raro che non ci siano veri e propri deliri, ma per lungo tempo possono non essere noti (d'altra parte parliamo di una persona che non tende a riferirli, li vive come realtà, sono parte del suo vissuto, e possono anche confondersi con idee condivise di tipo religioso, politico, teorie del complotto etc).
E' molto diverso mandar via sintomi ad una persona che se ne lamenta, e ad una che non se ne lamenta.
Certo, se la persona si rivolge per un tipo di sintomi, ma si configura una diagnosi paranoide, chiaramente l'idea è che vada trattata quella, anche perché altri farmaci potrebbero essere incompatibili.
Il funzionamento in questi casi è apprezzabile, ma la personalità, frutto di anni di consolidamento di comportamenti e modi di pensare, tende a rimanere intatta.
Ci sono forme in cui non sono presenti deliri, tipo le querulomanie senza veri e propri deliri, ma con comportamenti di negazione, falsi ricordi, accuse infondate, amplificazione di aspetti marginali che divengono temi centrali etc. E' dubbio se siano psicosi latenti, ed è l'ipotesi più plausibile.

#26
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A questo punto le domande si sono moltiplicate. Mi piacerebbe chiederle qual'è il ruolo dell'isolamento sociale (non parlo necessariamente di isolamento fisico, ma anche di continua simulazione e quindi mancata condivisione della propria esperienza reale). Possono tratti paranoidi coesistere con altri disturbi di personalità che hanno come base proprio questa visione negativa dell'altro? Sto pensando al disturbo antisociale o al disturbo evitante, ad esempio. Quali strumenti avete per raggiungere questi pazienti quando li individuate? Non è facile "scavalcare" la paura. Se si manifesta sotto forma di aggressività forse è più facile, perchè almeno il paziente rimane con un'illusione di controllo.

#27
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Si sono moltiplicate però ora finiscono per riguardare qualsiasi cosa. Lei parla come se le persone con questi disturbi chiedessero aiuto. Non lo fanno tipicamente. Le ho spiegato perché. Gli strumenti ci sono, ma non è che esista sempre un modo per entrare in contatto con un paziente per un fine terapeutico. Purtroppo è così.

#28
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Capisco. Grazie dottore, è stato molto paziente.

#45
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Non sono riuscito a leggerlo tutto.Mi e'venuta una paura incredibile ricordando il delirio paranoide che subii a 17anni.I miei si separarono su base delirante ed il Caregiver funzionava a lavoro perfettamente.Avevo il terrore del Caregiver..ci ho messo 20anni a dimenticare quel vissuto e la cosa veramente brutta e'che da soli devi assistere pure.Cornuti e Mazziati e diametralmente devi costruire il tuo futuro alla pari con chi invece non sa nemmeno che significa.Quando entra la malattia mentale in una casa,vi assicuro che sono sofferenze che non si possono comunicare poi con la cognitiva proviamo a far rientrare il danno ma cmq sono segni indimenticabili

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