Io non sono un giocatore: verità e equivoco nel gioco d'azzardo patologico
Film che ha come protagonista un “malato di gioco”, personaggio già trattato in altri film, come ad esempio il nostro “Il mattino ha l'oro in bocca”. Dal punto di vista narrativo, il film è ben articolato su due livelli. Uno, quello della vita quotidiana, in cui il protagonista, un professore di letteratura, vive con una rabbia malcelata verso le occasioni mancate e l'assenza di un vero coinvolgimento emotivo con la sua vita. Il confronto con due suoi allievi, una promessa del basket e un'allieva molto dotata, accentuano questo contrasto col mondo, anche se in qualche modo questi due ragazzi potrebbero riuscire dove lui ha fallito, nel realizzarsi.
Sull'altro piano, la vita di un giocatore che passa nottate nelle bische da cui esce sempre più indebitato. La frase chiave del film è “io non sono un giocatore”, che vorrebbe segnare l'uscita mentale dal gioco con un atto finale, come a dire che finché si è giocatori “in testa” non si può uscire dal circolo vizioso del gioco e della perdita. E nel caso del professore gambler sarà l'amore a far scattare la molla del rifiuto della mentalità del giocatore, per fargli prendere una strada più costruttiva nella vita reale.
Fino a un certo punto del film, il tratteggio del personaggio è corretto. In particolare, è riuscita la figura di Frank, il presta-soldi “morale”, che fa il suo lavoro di strozzino ma a differenza di altri individui cerca di dissuadere il giocatore a indebitarsi. Lo strozzino è solo in apparenza “onesto”, perché suo scopo è di valutare il debitore come un cliente, che deve essere solvente entro certi limiti, cioè deve indebitarsi all'infinito -non importa se non potrà mai estinguere il debito- ma allo stesso tempo rimanere capace di produrre soldi da versare per recuperare parte del debito. Ovviamente non si prevede che il giocatore produca denaro col gioco, ma col resto: deve essere giudicato in grado di lavorare, di guadagnare, di farsi prestar soldi da parenti e amici, o di delinquere per poter far soldi.
Un giocatore che non abbia più queste capacità produttive diventa irrilevante per uno strozzino, non più un cliente: dargli dei soldi perché li giochi e si indebiti ancora di più non serve a nessuno, neanche allo strozzino. Nel film lo strozzino discute questo assurdo, ovvero perché prestar soldi a una persona che prevede di non restituirli? In teoria il prestito servirebbe per pagare un altro strozzino, ma poiché la cosa di per sé non ha senso, il giocatore spera solo di indebitarsi con uno strozzino più umano, e in definitiva fregarlo, perché non prevede di recuperare il debito. Nella realtà il giocatore si indebiterà con due strozzini, perché i soldi prestati dal secondo non finiranno a tacitare il primo, ma saranno persi al gioco.
Inoltre Frank enuncia la sua visione delle cose: per uscire dalla trappola del gioco, si deve rinunciare ad avere di più, e non vendersi alle ambizioni. La grandezza degli uomini e dell'America, pare voler dire Frank, non si fonda sulle grandi fortune, ma su chi osa seguire i propri progetti senza pensare a quanto gli renderanno.
Dal fondo toccato verrà la soluzione. Uno degli strozzini propone al professore di far da tramite per truccare una partita con l'aiuto del suo allievo giocatore di basket. Il giocatore, in gran segreto, stavolta chiede prestiti alla bisca per poi puntare tutto su un evento certo, e fare davvero il colpo grosso. L'argomento convincente, paradossale ma geniale nel suo non-senso, è “se vuoi i soldi, devi investire su di me”. Pagato parte del debito, metterà ancora alle strette il padrone della bisca: “se rivuole i soldi, l'unica è farlo giocare sperando che vinca”. Altro non-senso che però funziona come scappatoia narrativa. La puntata sarà vincente, e alla fine il giocatore avrà addirittura una bella somma in mano per sé, che però lascerà come “mancia” allo strozzino Frank, quello che gli aveva aperto gli occhi.
Quel che funziona sulla carta però è impossibile nella realtà. Gli strozzini, come dicevo, non presterebbero mai soldi ad un giocatore senza più risorse, né avrebbe senso farsi restituire un debito attraverso una vincita al banco della propria stessa bisca.
Il malato di gioco, dal canto suo, non può improvvisamente scegliere di ripianare i debiti avendone la possibilità. Al massimo lo fa in parte, allo scopo non tanto di ripianare il debito, ma di rimanere “gradito” al suo strozzino, cosicché possa in futuro prestargli ancora soldi. Questa la ragione per cui il giocatore, se può, restituisce una parte del debito ma non tutto: la ragione è la stessa, sia per i soldi restituiti, che per quelli non restituiti e invece ri-giocati.
La molla “personale” che scatta corrisponde sostanzialmente ad un innamoramento per la sua allieva, che fa sorgere un progetto di vita magari “normale”, ma per questo vincente sul sogno perdente del giocatore. Questa soluzione è sancita dalla frase “Io non sono un giocatore”, come dire: il mio gioco era una malattia, basta dire “no” ad un intero stile mentale, e la voglia di giocare svanisce come neve al sole.
Certamente il malato di gioco non è giocatore, che si diverte, se la gode, e non ne fa neanche una questione di vincita (anzi spesso è ricco, quindi non lo fa certamente per cambiar vita con una vincita). E' proprio per questo che però non può rinunciare al gioco, perché vi è legato da una logica che non risponde più a niente di realistico, ma solo all'impulso a “vincere sul gioco”.
Nelle dipendenze non basta dire no, anzi sono proprio situazioni in cui dire no non è bastato, ed è quindi un errore banale (ma tipico) ripartire ogni volta con un guizzo di una volontà che non può più imporsi.
Il realismo “clinico” è sacrificato a favore dell'inventiva narrativa e del lieto fine. Nella realtà, per fortuna, esiste qualche cura. Un tempo esisteva anche la fortuna di non aver soldi per giocare, che oggi si è ridotta, visto che l'industria, legale o illegale del gioco, ha compreso che non è importante far giocare tanto ai ricchi, ma far giocare a ciascuno quel che ha, in un prosciugamento cronico.