Burroughs, "La scimmia sulla schiena": meglio di molti testi sulla dipendenza

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Dr. Matteo Pacini Psichiatra, Psicoterapeuta, Medico delle dipendenze

Forse non tutti conoscono William Burroughs, che scrisse sulle esperienze con le droghe, interessanti specialmente perché relativi agli anni ’50, in un’epoca in cui la dipendenza era un problema di persone adulte (tra cui molti medici).

In “La scimmia sulla schiena”, la notizia che il Governo si stava interessando in maniera aggressiva al problema per i casi crescenti tra i ragazzi è percepita come una notizia fasulla, impossibile: quale spacciatore vorrebbe un ragazzetto come cliente: senza soldi, con i genitori pronti a denunciare chi gli vende la droga, e facile da torchiare una volta arrestato ?.

Gli spacciatori non sono una categoria imprenditoriale ricca, ma per lo più tossicodipendenti che periodicamente cercano di mantenersi, senza troppo successo. E’ come una funzione “sociale” interna alla comunità dei tossicomani, da cui un tossicodipendente non si aspetta di guadagnare, ma di avere droga a disposizione.

Un altro mondo, rispetto all’oggi in cui l’età di inizio delle dipendenze si abbassa alla prima adolescenza, i giovani con tanti soldi in tasca e i genitori pronti a coprire i loro debiti sono clienti d’oro; e gli spacciatori sono, nei quartieri poveri ma anche tra i giovani “bene”, modelli di successo sociale e di soldi facili.

Queste alcune delle note d’epoca, che aiutano a considerare la tossicodipendenza senza falsi luoghi comuni legati al momento storico.“La scimmia sulla schiena” (Junkie) ha anche un valore scientifico-divulgativo.

Nel capitolo conclusivo de Burroughs spiega la tossicomania, e lo discretamente, meglio di tanti manuali contemporanei. Qualche contraddizione e ancora qualche residuo di concetti fasulli, ma alcune idee sorprendenti, per come coincidono con le scoperte scientifiche che di lì a poco si accumuleranno.

 

Egli afferma che la tossicodipendenza è una malattia che si prende, come da "un germe", dalla droga, e che non esiste il tossicomane come personalità, che quindi si esprime attraverso la dipendenza. Non c’è una ragione al di fuori della tossicodipendenza, la ragione è nel suo meccanismo, e il suo meccanismo deriva dall’azione dell’oppio. L’oppio passa e ripassa nel cervello, e genera una specie di “parassita” che guida il cervello verso l’oppio.

Stando senza droga non si fa altro che affamarlo, ma non lo si sradica. Il parassita “si è stabilito in zone che predilige” (le zone con i recettori per l’eroina che mediano il senso di appagamento), richiede la morfina semplicemente “per esistere”, quindi è solo una fonte di voglia di morfina, che non giova all’organismo ma al parassita, che si mantiene così. Il parassita inoltre fa in modo che se non gli arriva eroina, si sviluppi un malessere acuto, che fa impennare la smania di eroina (l’astinenza).

Burroughs dice inoltre che la personalità del tossicomane è semplicemente lo specchio della sua tossicodipendenza, e non il contrario. Le particolarità che ci possono essere in partenza in coloro che diverranno tossicomani non sono fondamentali, anzi potrebbero essere le stesse che caratterizzano chi prenderà la malaria.

La cosa in effetti risulta: da studi sulla personalità risulta sì che i tossicodipendenti sono più spesso ciclotimici, ma la ciclotimia è anche la base di personalità che predispone ad esempio a contrarre malattie infettive a trasmissione sessuale (HIV).

La tossicodipendenza è quindi un “dopo”: una malattia che si prende. Egli la definisce come “una sensibilità agli stupefacenti che si mantiene per tutta la vita”: in effetti l’unica differenza finale anche nel tossicodipendente curato è che non può più liberamente gestire l’eroina, cioè in altre parole una volta che il suo cervello la sente la “spende” in una maniera che porta alla dipendenza.

Si arrabbia più di una volta contro l'espressione dei medici "perché le è necessaria l'eroina ?", perché ritiene che questa "necessità" sia semplicemente l'espressione di una distorsione causata al cervello dall'eroina usata per un certo periodo, e non una vera necessità. Nessuna debolezza d'animo, vizio morale, semplicemente un'anomalia acquisita che si esprime come tale.

Una contraddizione ricorrente nell'analisi di Burroughs è quando afferma che tossicomane "ha bisogno di un tot eroina per star bene", mentre prima poteva star bene anche senza. Questo è un equivoco con il malessere dell'astinenza, che è passeggero e non crea alcun vero legame. Il parassita richiede eroina, ma in quanto parassita quando la ha non porta beneficio all’organismo, anzi cresce a spese dell’organismo: la dipendenza non è in equilibrio con il cervello, è un meccanismo auto-distruttivo che quindi non corrisponde solo ad un nuovo equilibrio che richiede un tot di eroina, ma ad un meccanismo in cui l’afflusso di sostanza genera ancora più dipendenza, con in più il malessere dell’astinenza, a volte, a dare il tormento.

Il tossicomane desidera l'eroina, ma quando l’ha non sta affatto bene: l'eroina segna la strada verso il suo peggioramento psichico e sul piano della felicità personale. Il paradosso si sviluppa da una prima fase in cui effettivamente l'eroina aggiunge piacere e soddisfazione, ma poi si verifica un “impazzimento”, che Burroughs chiama il più delle volte assuefazione, con un significato che forse risente della traduzione: il termine inglese “addiction” non ha lo stesso significato di dipendenza ma piuttosto di schiavitù, legame prioritario di cui la persona vorrebbe liberarsi ma non può.

Altra idea non corretta è che la droga induca dipendenza (assuefazione sì) assunta in qualsiasi modo: la via di assunzione è cruciale per determinare il potere di legame e la rapidità con cui si arriva a perdere il controllo. Questo accade perché cambia la rapidità con cui la sostanza raggiunge il cervello (massima per le somministrazioni per inalazione o endovenosa, minima per l’ingestione o i medicinali a rilascio controllato).

Data pubblicazione: 20 luglio 2013

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