La patologizzazione della normalità in psichiatria: il caso dell’ansia
Tutti quanti proviamo paura. Per spiegare le differenze dell’ansia e la sua funzione fisiologica nel nostro funzionamento normale, ci hanno sempre insegnato la differenza artificiosa tra l’ansia normale e l’ansia patologica, cioè quell’ansia fisiologica che ci spinge ad agire di fronte a delle avversità naturali e quella che invece ci blocca non permettendoci di affrontare quanto ci chiede la vita odierna portandoci ad evitamenti o handicap di varia natura o anche che si mostra quando non dovrebbe in assenza dello stimolo ansiogeno o ancora quando la reazione è eccessiva rispetto allo stimolo.
In una interessante recensione apparsa sulle pagine dell’ultimo numero dell’American Journal of Psychiatry (American Psychiatric Association) [1], il noto psichiatra e genetista Kenneth S. Kendler, ironizza sul concetto di normalità in psichiatria e sulla difficoltà di fare una distinzione chiara e netta tra il normale e il patologico con le nostre attuali conoscenze.
L’occasione è offerta da un libro dal titolo accattivante di Horwitz & Wakefield due psicologi autori di una teoria detta “The harmful dysfunction theory” [2].
Purtroppo è in inglese ma per chi fosse interessato ad una lettura sui confini (boundaries) offerti dalle attuali diagnosi potrebbe fare lo sforzo di leggerlo.
L’ansia si presta bene per questo esercizio che sicuramente sarebbe stato meno facile con altri disturbi come la depressione, fa notare Kendler.
Nel loro libro gli autori passano in rassegna tutti i disturbi dansia come sono elencati e descritti nel DSM-IV-TR [3], (il Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali della Società Americana di Psichiatria) criticandoli uno a uno. Per fare questo Horwitz & Wakefield si basano sulla loro stessa teoria elaborata in alcuni articoli circa una ventina d’anni prima: secondo questa teoria una malattia psichiatrica deve causare disagio alla persona ma deve anche riflettere una sottostante disfunzione cerebrale, di un meccanismo cerebrale evolutivo (“the harmful dysfunction theory”).
Il problema è complesso se applicato alla psichiatria. Kendler fa un esempio partendo dalla fobia dei felini. 100.000 anni fa esistevano dei felini feroci che assalivano l’uomo. Era normale sviluppare “paura per i felini” e persone con varianti genetiche che tramandavano la paura dei felini avevano un migliore adattamento e selezione positiva rispetto ad individui senza paura più esposti ai pericoli e alla morte (selezione negativa e potenziale estinzione). L’Homo Sapiens favoriva quindi la trasmissione di questa variante “paura dei felini” e al giorno d’oggi ci sono tanti individui che si sono evoluti con il circuito della paura dei felini.
Tuttavia ai nostri tempi i felini pericolosi si sono trasformati nei gatti domestici e questa paura che un tempo era normale e salvavita adesso è considerata irrazionale e causa di disagio: sembra lecito chiedersi se questa fobia dei gatti sia un disturbo mentale! Sicuramente risponde al criterio di una “marcata e persistente paura che è eccessiva o irragionevole” (“marked and persistent fear that is excessive or unreasonable”). Secondo il manuale diagnostico DSM questa paura soddisfa i criteri di una “fobia semplice”.
Quindi secondo il manuale di psichiatria una persona con la fobia dei gatti rientrerebbe nella malattia perché ha una paura eccessiva e irrazionale. Tuttavia se seguiamo il modello di Horwitz & Wakefield alla lettera, questo circuito cerebrale “paura dei felini” ereditato dai nostri antenati starebbe funzionando benissimo quindi non ci sarebbe nessuna disfunzione nel cervello di queste persone nonostante la loro fobia, quindi non siamo di fronte ad una malattia.
Sembra complicato! Questo libro, continua Kendler, ci mette di fronte a due intuizioni contraddittorie: da un lato la consapevolezza che vi sono delle paure che possono essere ereditate e far parte del normale funzionamento del cervello e in quanto tali non sono da considerare disturbi mentali; ma anche che il nostro cervello ci permette di adattarci al mondo circostante e le persone che vivono delle fobie come nell’esempio fatto, si sentono a disagio e soffrono nella loro quotidianità. Sembrerebbe normale chiamare queste persone se non malate almeno “disturbate”.
La seconda intuizione è che il cervello si è evoluto per far fronte ai felini e quindi non c’è niente di sbagliato nel funzionamento del cervello, quindi non si può parlare di disturbo ma di un cervello perfettamente funzionante.
Questo ragionamento non è da respingere completamente perché ha delle implicazioni importanti per ciò che noi consideriamo un “disturbo”. Ed effettivamete nella loro analisi dei disturbi d’ansia come vengono classificati nel manuale Americano, il DSM non risulta molto attendibile: secondo Horwitz & Wakefield la definizione di disturbo è troppo vaga, estensiva, iperinclusiva, troppo attenta al presente e non tiene conto dell’evoluzione del cervello.
Il topic scelto dai due autori si sposa bene alla loro teoria e ne escono abbastanza bene: nessuno dubita che di fronte ad un pericolo si possa reagire con una forte ansia. Diverso sarebbe stato, secondo Kendler, se fosse stata presa in considerazione la depressione. Che la depressione possa svilupparsi in modo così lineare e naturale è meno chiaro di quanto i due autori pensino secondo la loro teoria.
Il modo in cui i confini dei disturbi d’ansia sono trattati nel DSM è imperfetto e vago. Essi criticano in particolare le diagnosi di fobia sociale e disturbo post-traumatico da stress di cui vi è, secondo questi autori, una vera inflazione, e rimproverano al DSM il fatto di ignorare che l’evoluzione ci ha dotato di meccanismi evolutivi legati all’ansia (paura di volare, paura delle altezze, paura di felini pericolosi) che possono sembrare irrazionali o un disadattamento ai giorni nostri, mentre erano dei meccanismi salvavita migliaia di anni fa. Ignorando questo fatto si va verso diagnosi iperinclusive o un eccesso di diagnosi di fronte alla normalità.
Tuttavia salta agli occhi un problema fondamentale nella lettura di questo libro per quanto ben scritto: gli autori credono ciecamente nella loro teoria e impostano tutto il loro ragionamento su questa senza in realtà formulare delle ipotesi di lavoro. Sicuramente avrebbero potuto scrivere un libro più accurato e obiettivo.
Kendler quindi mette in evidenza 3 falle nel loro ragionamento:
1) nella maggioranza dei casi non abbiamo alcuna idea di come l’evoluzione abbia progettato il nostro cervello e noi possiamo solo fare ipotesi più o meno plausibili senza poterle mettere alla prova di esperimenti; se noi non avessimo saputo che i felini anticamente erano feroci, quali storie ci saremmo inventati per giustificarne la loro paura?
2) la rappresentazone dell’evoluzione di Horwitz & Wakefield è artificiosa in quanto prevedono solo un tipo di funzionamento umano senza considerare che ci possono essere invece molti tipi diversi perché l’evoluzione funziona su popolazioni non su singoli. Nel caso dell’ansia gli individui non sono tutti uguali ma ve ne sono alcuni più propensi a sviluppare ansia e altri meno propensi. Paradossalente secondo il modello di Horwitz & Wakefield, la persona il cui corredo genetico non ha ereditato il “circuito paura dei felini” potrebbe sviluppare una paura se confrontato con dei veri felini, ed essere quindi considerato malato, mentre un’altra persona normalmente dotata del “circuito paura dei felini” e che sviluppa una fobia, sarebbe considerato sano pur condividendo la stessa sindrome del precedente individuo come descritta nel DSM. C’è qualcosa che non torna.
3) non è del tutto ovvio cosa fare se l’ambiente in cui l’uomo si è evoluto e quello in cui vive, sono completamente desincronizzati. Considerando l’attuale epidemia di diabete di tipo II potrebbe essere semplicemente frutto dell’evoluzione di un fegato fatto per accumulare e metablizzare grassi. Non fa altro che fare quello per cui si è evoluto quindi secondo questa teoria il diabete di tipo II non dovrebbe essere considerato una malattia. Andate a dirlo alle compagnie di assicurazione che rimborsano le cure a questi pazienti!
È chiaro che il discorso non torna.
Nonostante questo, conclude Kendler, il libro è abbastanza ben scritto per chi è ineressato a conoscere i limiti dei confini degli attuali disturbi mentali.
È triste ammetterlo, ma allo stato attuale delle conoscenze, a parte naturalmente l’insoddisfacente definizione del DSM, noi non abbiamo ancora una chiara, coerente e facilmente implementata definizione di disturbo mentale.
Fonti
- [1] Book Forum: January 2013: All we have to fear: Psychiatry’s transformation of natural anxieties into mental disorders. Reviewed by Kenneth S. Kendler, M.D. Am J Psychiatry 2013; 170: 124-125. 10.1176/appi.ajp.2012.12070995
- http://ajp.psychiatryonline.org/article.aspx?articleid=1555610
- http://ajp.psychiatryonline.org/data/Journals/AJP/926192/124.pdf
- [2] Horowitz AV & Wakefield JC. All we have to fear: Psychiatry’s transformation of natural anxieties into mental disorders. Oxford University Press, 2012.
- [3] DSM-IV-TR: Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Fourth Revision, Text Revision. American Psychiatric Press, 2000.