Le cure primarie: alternativa all'ospedale e all'ospedalocentrismo
È finalmente di moda parlare del territorio e delle cure primarie.
L’ospedale va ridimensionato e in questo difficile momento va anche liberato dalla pesante pressione in atto, e reso idoneo alla sua molteplice e insostituibile funzione.
Come ho scritto molte volte, in varie occasioni, l'ospedale va ridimensionato, e non solo, come si diceva, perchè è troppo costoso per l’erario, ma anche perchè va rilanciata la cosiddetta medicina del territorio in un sana ed equilibrata sanità a favore dei cittadini.
Ma parlare di cure primarie non deve essere semplicemente un ripiego, i problemi sono questi:
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La medicina del territorio è certamente più semplice ed economica, almeno per adesso, e soprattutto è più a misura d’uomo e di famiglia; ma bisogna convincerci anche che essa “sarebbe” la più autentica risposta in termini di traduzione clinico-professionale alle complesse problematiche di salute della popolazione odierna (morbilità e prevenzione, primo accesso nella patologia acuta, momenti epidemici, invecchiamento della popolazione, disabilità e cronicità diffusa, follow-up, ecc..) e ai sempre più avanzati progressi scientifici della medicina.
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La medicina del territorio si basa praticamente sul lavoro dei medici di base (o medici di medicina generale o medici di famiglia) cosiddetti “generalisti”; i distretti ne “dovrebbero” essere un supporto ed un’appendice (non un’appendicite!).
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Occorre una medicina del territorio diversa, più adeguata ad un lavoro clinico che sostituisca in meglio il ricorso troppo diffuso e spesso inappropriato all’ospedale.
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Occorre una nuova classe di medici di base; devono avere una preparazione più adeguata dal punto di vista della esperienza clinica, una cultura medico-chirurgica più consistente e funzionale a diagnosi e terapie capaci di essere esaustive ed autonome dalla “presenza” ospedaliera.
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Occorre, se necessario, aumentare il carico “clinico”, magari supportandolo con il lavoro infermieristico e abolire o ridurre al minimo il carico “burocratico”.
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Occorrono strumenti diversi: gli ambulatori, le strutture e la strumentazione per interventi clinici, fatti da medici di medicina generale, devono essere autonomi e capaci di operare senza il ricorso costante al supporto specialistico.
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Tali medici di medicina generale si formano in modi che vanno rivisti e ri-progettati, ma di certo diversamente da come si stanno formando da troppi anni ormai, quindi occorre invertire la tendenza.
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Occorre una riconversione culturale: ormai è diffusissima, anche tra gli stessi operatori, la cultura che per ogni problema di salute il meglio è rappresentato dallo specialista di settore: occorre riscoprire il valore insostituibile della medicina generalista e “olistica” nella cura della persona.
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Se necessario, per aiutare tale riconversione culturale, occorre, magari pro-tempore, tornare a medici che stanno part-time in ospedale e part-time esercitano come medici di base, con il supporto di personale, infermieristico e amministrativo; e vanno adeguatamente incentivati dal punto di vista finanziario, normativo e di carriera, a differenza del passato in cui furono disincentivati e “puniti” per il “doppio lavoro”.
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Poiché lo stato ha bisogno ed avrà sempre più bisogno della burocrazia, per controllo e programmazione finanziaria, occorre destinare ad occuparsi delle pratiche personale diverso dai medici di base, riattribuendo quindi a questi ultimi le funzioni cliniche per cui hanno studiato, riguadagnandoli così alla stima “clinico-professionale” dei cittadini;
i cittadini amano il loro medico “di famiglia”, lo dicono anche i sondaggi, ma quando si sentono davvero male vanno subito al pronto soccorso (disposti ad attendere ore e ore) o dallo specialista del ramo;
e magari poi chiamano il loro medico a casa per farsi scrivere la terapia che gli altri hanno prescritto. -
Occorre rieducare la gente a fare un uso appropriato della medicina, a scegliere la medicina di territorio, ad aspettarsi da essa le soluzioni adeguate, a scegliere il medico in base alla esperienza e alla cultura, non solo sulla simpatia e sulla accondiscendenza.
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Occorre inventare strumenti di verifica di qualità sul lavoro di medicina territoriale; la verifica va fatta sul lavoro clinico, non semplicemente sulla spesa di farmaci, o sulle prescrizioni, va fatta sui risultati in termini clinici, come riduzione del ricorso ad altri medici, ospedalieri o specialisti, e sulla celerità e appropriatezza della diagnosi e della restitutio ad integrum o della stabilizzazione della malattia cronica, o della prevenzione di eventi acuti o complicanze attendibili;
su ciò occorre investire con politiche di monitoraggio e di incentivazione, non semplicemente di disincentivazione della spesa e delle prescrizione, occorre incentivare l’aggiornamento personale e l’innovazione realmente utile ed efficace, non i cosiddetti “corsi” obbligatori diretti dai soliti noti sindacalisti del momento e destinati al mero ripasso del corso di laurea, uguale per tutti e funzionali a dare visibilità e pubblicità all’Asl e ai medici dell’ospedale del distretto geografico di appartenenza, allo scopo di evitare le costose “fughe” o le costose dissonanze.
Con appropriati strumenti di verifica sarà possibile programmare meglio la spesa e gli investimenti, ma sarà anche possibile dimostrare ai cittadini, e agli amministratori, la bontà dell’investimento sulla politica del territorio e sulla credibilità “clinica” della medicina del territorio. -
E’ necessario istituire organi appositi, sia nelle asl che nei comuni, dedicati allo studio e agli indirizzi sulle politiche delle cure primarie e che tengano un filo diretto e privilegiato, “dedicato”, a necessario supporto del lavoro dei medici di base, dei loro studi convenzionati e della cosiddetta medicina in associazione, o delle odierne “case della salute” o del cosiddetto “ospedale di comunità”, se esiste, e della relazione tra tali realtà di sanità territoriale.
Infine è bene non dimenticare mai che I medici di base sono dei liberi-professionisti, non dipendenti della ASL, praticamente svolgono un lavoro pubblico ma da privati, in parte parasubordinato.
Con tutto ciò che tale posizione comporta a livello della libertà professionale, ma anche a livello di riconoscimento dei diritti propri dei “dipendenti” e del trattamento economico-finanziario, stipendiale, assicurativo e previdenziale.