2013, l'ambulatorio multietnico
Un giovedì d'inverno come gli altri, poco dopo le tre del pomeriggio, faccio il mio ingresso nella sala d'aspetto dello studio di medicina generale in cui lavoro da più di tre lustri.
E di colpo, un po' meravigliato, realizzo come tutto sia cambiato negli ultimi anni. Sulle nostre sedie arancioni sono seduti, vicino alla porta, quattro ragazzi di colore del campus della Croce Rossa che ospita i richiedenti asilo. Due sono ghanesi, uno è del Mali e uno della Costa d'Avorio. Dirimpetto, vicino al termosifone c'è una coppia di anziani, lei campana e lui veneto che, come ogni giovedì, sono passati dal dottore per provare la pressione. Accanto a loro un trio orientale, cinesi dello Zheijang, genitori e figlia che fa da interprete: il papà dovrà essere operato all'anca e vuole rassicurazioni. Accomodata sotto la bacheca c'è una piccola signora, originaria del Perù, che ha bisogno delle impegnative per gli esami del sangue suoi e del marito. Sulla sedia vicina c'è un ragazzo, operaio di origine rumena, che ha un braccio al collo per un piccolo infortunio sul lavoro, per cui deve prolungare l'inabilità. Mentre saluto tutti, entra dietro di me un donnone con abiti variopinti. Originaria del Maghreb atlantico, sebbene figlia di Allah è devotissima di Padre Pio, ragione per cui “vale doppio”, come dice lei, quando gli si rivolge in preghiera.
Finalmente entro nello studio, saluto la segretaria che è già affaccendata sul computer, e dopo un veloce caffè ricevo il primo paziente.
- “Buongiorno, si accomodi e mi dica...”
- “Sorry, doctor. I don't understand. Can you speak English, please?”
- “Yes, of course. Tell me your problem.”
E così, grazie ai miei “nuovi” pazienti ho dovuto rispolverare l'inglese e il (poco) francese studiati alle superiori. E questo per raccogliere un'anamnesi, farsi spiegare un sintomo, esaudire una piccola richiesta. Uscito il ragazzo del Ghana, un compassato signore piemontese, in coda dalla segretaria per le ricette, mi apostrofa: ”Dutùr, ma ades ai tuca parlè furestè cun 'sti giuvo? (dottore, ma ora deve parlare straniero con questi giovani?)”. “Si monsù, i temp a sun cambià e la lenga s'adegua.(Si, signore, i tempi sono cambiati e il linguaggio si adegua).
Nelle nostre città probabilmente uno dei posti dove si tocca con mano il multiculturalismo (che parolone!) del nuovo paese è proprio dal medico di famiglia. Si deve prendere atto che con la globalizzazione e le nuove ondate migratorie, spontanee e non (penso a questi ragazzi – i richiedenti asilo – dell'Africa subsahariana, che scappano da condizioni di vita disumane e da vere e proprie guerre) la nostra società è mutata.
Tocca a tutti noi insieme - “vecchi” e “nuovi” italiani - cogliere le potenzialità di miglioramento umano e sociale che questo ci offre, pensando che più persone, più idee diverse, più lingue siano un vantaggio e non un problema.